Giovedì 03 Aprile 2003
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"I Giolittiani dell'Umbria"
"Dalla XXI alla XXVI legislatura, 1900-1924"    svesvs

di Alberto Stramaccioni

La grande maggioranza dei parlamentari umbri fino alla riforma elettorale del 1919 sostennero i diversi governi gioliattiani, ricoprendo anche importanti responsabilita' di governo e si impegnarono per lo sviluppo della Provincia dell'Umbria.


Il Parlamento italiano nel periodo 1900-1924 vive una fase particolarmente difficile, non tanto per l'esaurirsi progressivo della funzione di rappresentanza a causa del sopraggiungere della dittatura fascista, quanto perché la forza ed il protagonismo dei nuovi movimenti sociali e dei partiti di massa diventano sempre di più, i soggetti politici principali dell'iniziativa politica in tutto il paese. Per il Parlamento molto spesso è costretto a registrare la realtà e più volte interviene con significative riforme elettorali per rilanciare il suo ruolo e la sua funzione. D'altronde la cosiddetta crisi di fine secolo aveva messo in evidenza come nelle assemblee legislative, anche a causa della ridotta partecipazione, non riuscivano ad arrivare i problemi, le esigenza e gli interessi di una società in profonda trasformazione a causa di una rapida rivoluzione industriale che aumentava ricchezza e benessere, ma creava squilibri, sfruttamento, arretratezze soprattutto al sud. D'altronde negli ultimi quindici anni del secolo il contemporaneo intervento del nuovo Stato nell'economia anche con misure protezionistiche, la diffusione di molte scoperte tecnico-scientifiche, la crescita di un sistema infrastrutturale e industriale e l'aumento dei commerci internazionali fanno in breve tempo dell'Italia una delle principali potenze economiche dell'Europa.
Ma se in Inghilterra, Francia e in Germania i livelli di democratizzazione dello stato erano abbastanza consolidati in Italia non solo permaneva un suffragio molto ristretto (anche se il numero dei cittadini italiani che avevano diritto al voto non erano di molto inferiori a quelli inglesi) ma soprattutto non si erano ancora realizzati importanti fenomeni come la crescita di un sistema di partiti, un efficace controllo parlamentare sull'Esecutivo, l'istituzionalizzazione della forma di governo.
Tutto ciò condusse l'Italia a quella crisi di fine secolo che si manifestò emblematicamente con la strage milanese di Bava Beccaris del 1898, quale segno delle nuove contraddizioni di una crescita economico-sociale diseguale di cui si faranno portavoce i sindacati e il Partito socialista che nasce proprio nel 1892 e che dieci anni prima aveva eletto nel Parlamento italiano, Andrea Costa, come primo ed unico deputato socialista. Analogamente gli stessi cattolici dopo il "non expedit" con Leone XIII e la "Rerum Novarum" del 1891 si riavvicinano alla partecipazione politica attraverso la costituzione della Democrazia Cristiana di Romolo Murri in contrasto con l'intransigenza tradizionalista dell'Opera nazionale dei congressi fondata nel 1874. E' così che all'inizio del nuovo secolo entrano decisamente sulla scena politica italiana due nuovi movimenti e organizzazioni politiche e sociali; i socialisti e i cattolici democratici. Contemporaneamente si manifesta la crisi della vecchia classe dirigente politico-parlamentare di formazione risorgimentale espressione della destra liberale, dei Cavour, Sella, Minghetti, Ricasoli che avevano guidato la nuova nazione nel primo decennio post-unitario, poi avvicendati da Crispi e Depretis.
Una tendenza che risultava meno netta in Umbria anche perché alcuni deputati come Guido Pompili, Cesare Fani, Leopoldo Franchetti, Francesco Fazi, Luigi Morandi, Giuseppe Bracci casi abbastanza rari in Italia vennero ricandidati ed eletti anche sei, sette, otto e perfino nove volte come è il caso di Cesare Fani dal 1886 al 1913, o Guido Pompili dal 1886 al 1909 o ancora di Leopoldo Franchetti dal 1882 al 1904. Purtuttavia dai primi del novecento accanto ai tre veterani si aggiunsero una nuova generazione di parlamentari tra i quali emersero personalità come quelle di Francesco Faustini, Augusto Ciuffelli, Carlo Schanzer e Ugo Patrizi. Giovani parlamentari espressione della nascente stagione giolittiana. 
D'altronde è proprio il liberale piemontese Giovanni Giolitti, rimasto per un quarto di secolo un protagonista non certo indiscusso della politica italiana, che ebbe di certo il merito incontestabile di aver guidato l'Italia in un periodo molto difficile della vita italiana garantendo crescita e sviluppo e realizzando importanti riforme elettorali, amministrative e istituzionali che allargarono l'area della decisione politica cercando di coinvolgere ripetutamente nel governo del paese due nuove componenti fondamentali della politica italiana i cattolici e i socialisti. Questa sua politica in fondo si concretizzò già nel 1904 e nel 1909 quando sollecitò le prime candidature cattoliche al parlamento in sintonia con il Pontefice Pio X, preoccupato per l'avanzata socialista che peraltro aveva già sconfessato come eretico un movimento cattolico di democrazia sociale (guidato dal sacerdote Romolo Murri), ritenuto troppo vicino alla filosofia modernista. Contestualmente e contemporaneamente il progetto giolittiano arrivava a prevedere assieme ai cattolici anche il coinvolgimento di radicali e socialisti nelle responsabilità di governo del paese, sia pure in via subordinata. Ma perché ciò potesse accadere (e accadde, con i radicali) era necessario trasformare le istituzioni, che fino allora si erano identificate con la difesa di una sola parte della società, in un'area neutrale in cui potesse svolgersi una normale dialettica politica. Un programma di riforme sociali e istitituzionali era però difficile da realizzare in un Parlamento a maggioranza di centrodestra e condizionato dall'accettazione, da parte del Psi, della linea riformista. Di conseguenza, l'attuazione di questo progetto richiese la messa in opera di mediazioni trasformistiche in linea di continuità con la consolidata prassi ottocentesca e comportò, quando il massimalismo rivoluzionario ebbe il sopravvento sul riformismo socialista, un ampio ricorso a metodi clientelari e manipolativi di formazione delle maggioranze liberali, al momento del voto e dopo il voto, per stabilizzare il sistema e non a caso polemicamente si parlò addirittura da parte di Salvemini, di "governo della malavita". Nonostante molti limiti Giolitti proseguì sulla strada delle riforme elettorali per dare autorevolezza al Parlamento e dopo le riforme del 1882, del 1892 nel 1912 si arriva ad una nuova riforma che porta da tre milioni a quasi otto milioni e mezzo il numero degli italiani (solo cittadini maschi naturalmente), aventi diritto al voto. Rimane il sistema elettorale di tipo maggioritario con lo scrutinio uninominale e si realizza però una specie di semi suffragio universale. La politica parlamentare di Giolitti subisce però un primo colpo proprio all'indomani delle elezioni del 1913 con la nuova legge quando sui 304 deputati liberali eletti, ben 228 avevano aderito al "patto Gentiloni", (sembra che poi 150 smentirono) l'accordo con cui Vincenzo Gentiloni, presidente dell'Unione elettorale cattolica, aveva offerto il proprio appoggio, in funzione nettamente antisocialista, a quei candidati che si fossero impegnati a salvaguardare le posizione della Chiesa in materia di istruzione e di diritti civili.
Nei mesi successivi emblematici della crisi del "compromesso giolittiano" sono due fenomeni dal segno opposto. E cioè nel giugno 1914 le proteste della "settimana rossa" in particolare nelle Marche e in Romagna e poi con scioperi e manifestazioni in tutta l'Italia organizzate dalla sinistra e dal sindacato mettano in evidenza l'insoddisfazione popolare per la politica economica e sociali del governo. E ben più importanti sono poi le "radiose giornate" antiparlamentari del maggio 1915 organizzate dai nazionalisti a sostegno dell'entrata in guerra dell'Italia contro l'Austria a fianco dell'Intesa. Da questa manifestazione apparve chiara la crisi di ruolo e funzione del parlamento italiano stretto tra la piazza interventista e il Re che aveva benedetto il 26 aprile 1915, il trattato di Londra fu stipulato segretamente, all'insaputa del Parlamento e l'Italia si impegnò così ad entrare in guerra entro un mese in cambio del Trentino e dell'Alto Alto Adige, di Trieste, dell'Istria, della Dalmazia (con l'eccezione di Fiume), di Valona in Albania e delle isole del Dodecaneso. Il patto di Londra incontrava infatti l'ostilità di un parlamento a maggioranza neutralista (posizione autorevolmente espressa da Giovanni Giolitti, sostenuto da 320 parlamentari su 508) in cui si ritrovarono oltre ai liberali giolittiani i cattolici, i socialisti in netto contrasto con gli interventisti in minoranza in parlamento rappresentati dai liberali di destra, dai socialisti riformisti, dai repubblicani, dagli irredentisti, dai futuristi, tutti rumorosamente rappresentati da Gabriele D'Annunzio.
Fu così che negli anni della prima guerra mondiale si svolse la più lunga legislatura dal 1913 al 1919 periodo in cui il parlamento rimase quasi ininfluente mentre tutto era deciso dal Re, dallo Stato Maggiore dell'esercito e dal governo.
Finita la guerra, l'insoddisfazione diffusa per la "vittoria mutilata" e la difficile crisi economica e sociale, porta tra l'altro a considerare sempre più inadeguata la funzione di rappresentanza del vecchio parlamento e nel 1919 si torna a votare con una nuova legge elettorale che modifica radicalmente la rappresentanza parlamentare introducendo per la prima volta il sistema voto di lista con il sistema elettorale proporzionale allargando il numero degli elettori maschi, e diventando così protagonisti della scena politica italiana i grandi partiti di massa. La nuova legge elettorale porterà ad un ricambio radicale dei rappresentanti parlamentari delle legislature precedenti con l'avvicendamento di oltre il 60% degli eletti. I deputati alla prima legislatura furono infatti 304 sul totale dei 508.
Anche la rappresentanza dei parlamentari umbri subì un ricambio radicale. Solo tre dei vecchi parlamentari giolittiani Ciuffelli, Gallenga e Amcici vennero riconfermati e per la prima volta furono eletti cinque deputati socialisti, uno popolare, uno del blocco laico. Tutti sostituirono quei parlamentari umbri che dalla fine del secolo fino alla vigilia della prima guerra mondiale furono in gran parte sostenitori dei diversi governi guidati da Giovanni Giolitti e che lavorarono in forte sintonia con il Consiglio Provinciale per affrontare e risolvere i diversi problemi viari, ferroviari, sanitari, agricoli, economici e sociali. I Pompili, i Fani, i Franchetti, i Fazi, gli Amici, gli Schanzer, i Faustini e i Ciuffelli si segnalarono anche per una significativa attività parlamentare e alcuni di loro come Pompili, Fani e Ciuffelli ebbero rilevanti incarichi di governo. In particolare se si guarda all'andamento del voto ai partiti con la nuova legge elettorale le elezioni del 1919 danno al Psi quasi due milioni di voti pari al 32,3% e 156 seggi e diviene così il partito di maggioranza relativa mentre i suoi iscritti erano più che triplicati durante la guerra. Ugualmente con queste elezioni si sancì una forte affermazione del Partito Popolare fondato nel gennaio di quell'anno da Don Luigi Sturzo che ottenne oltre un milione di voti pari al 20,5% conquistando 100 seggi. 
Con la guerra e lo sviluppo dei partiti di massa si erano esaurite le formule politiche che avevano segnato l'età giolittiana, al punto che tra il 1919 e il 1921 non si trovò più nel parlamento italiano una coalizione di partiti in grado di dare stabilità all'esecutivo e di gestire la difficile transizione verso la pace, al punto che dopo appena due anni si dovette tornare a votare. Ed è proprio in questo periodo che si sviluppò un nuovo movimento politico che avrebbe segnato tutta la storia italiana del novecento, il fascismo. Un movimento costituitosi ufficialmente a Milano il 23 marzo del 1919 con un profilo politico contraddittorio e confuso (si definiva antiborghese, antisocialista, anticlericale, antimonarchico), e in prevalenza gli aderenti (ex combattenti, interventisti, ex sindacalisti rivoluzionari, futuristi, arditi che ne costituirono la prima forza armata) si riconoscevano in un programma che prevedeva tra l'altro la riduzione della giornata di lavoro a otto ore, la garanzia dei minimi salariali, l'estensione del voto alle donne, il rifiuto della coscrizione obbligatoria, il sequestro dei profitti di guerra. Il loro leader indiscusso Benito Mussolini, ex socialista, già direttore dell'Avanti era stato espulso per il suo interventismo. Un movimento che tuttavia comunque nel corso delle elezioni del maggio 1921 non ottenne un grande consenso (solo 35 seggi e due anni prima nemmeno l'1%) anche se i candidati fascisti erano presenti nelle liste liberali dei "blocchi nazionali" (alleanze elettorali varate per contrastare l'avanzata dei socialisti e dei popolari) che avevano raccolto ben 265 seggi. Ma prima di queste elezioni il movimento fascista usando la violenza come strumento di lotta politica nei confronti delle forze avversarie tra l'aprile e il maggio era stato protagonista di scontri di piazza che avevano provocato oltre cento morti e gli anni 1921-1922 diventarono il "biennio nero" quasi in contrapposizione al "biennio rosso" 1919-1920 caratterizzato da scioperi e manifestazioni e occupazioni di fabbriche organizzate dei socialisti. 
E' così che nel 1922 dopo anni di progressiva ingovernabilità del parlamento e del paese l'iniziativa di Mussolini e dei fascisti portò al potere questo nuovo movimento con la ben nota marcia su Roma del 28 ottobre per nulla contrastata dall'esercito e dal Re, che anzi gli affidò subito la guida del governo. Mussolini, presidente del Consiglio guidò un esecutivo basato sulla collaborazione parlamentare di diversi eletti appartenenti ai popolari, ai nazionalisti, ai liberali che consentì al capo del fascismo di presentarsi davanti al paese con il volto moderato, rispettoso della legge e propugnatore dell'ordine. Ma questa situazione di apparente moderazione non durò a lungo perché nel luglio del 1923 fu approvata una nuova legge elettorale la cosiddetta "legge Acerbo" che prevedeva un premio di maggioranza pari ai due terzi dei seggi parlamentari per la lista che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti. Era naturalmente una legge punitiva e discriminatoria per le minoranze, ma fu comunque approvata grazie al voto favorevole dei popolari e del blocco liberale. Mussolini intendeva così sbarazzarsi di un parlamento eletto in un'altra stagione politica con una rappresentanza ancora troppo vistosa di socialisti e comunisti. Tant'è che alle elezioni dell'anno successivo, dell'aprile 1924 fu presentata una lista governativa "il listone" nella quale insieme ai fascisti figuravano molti esponenti della vecchia classe dirigente liberale. La campagna elettorale fece registrare violenze e pestaggi, e alla fine la vittoria dei fascisti fu meno clamorosa di quanto ci si aspettasse. Sulle loro liste confluirono quasi cinque milioni di voti pari al 64% dei consensi che portarono 374 seggi (260 ai fascisti, 114 ai fiancheggiatori) ma gli avversari riuscirono comunque ad ottenere quasi due milioni e mezzo di voti distribuiti tra socialisti unitari (24 seggi) comunisti (19 seggi) socialisti massimalisti (22 seggi) popolari (39 seggi) democratico-sociali (10 seggi).
Alle elezioni del 1924 le violenze fasciste e l'iniziativa dei candidati del "listone" nella Circoscrizione Lazio-Umbria (una delle quindici in cui il territorio italiano era diviso secondo la nuova legge elettorale e comprendente le provincie di Roma, Perugia, Pesaro) pesarono sul risultato fino ad eleggere 10 deputati sul totale di 16 nella Lista Nazionale (di cui 4 fascisti) e poi 2 del Ppi, 1 Repubblicano, 1 socialista massimalista, 1 comunista e un socialista unitario Giacomo Matteotti.
Già nelle elezioni del 1921 il blocco nazionale in Umbria aveva avuto un notevole successo eleggendo ben 6 deputati su 10, uno era andato ai Popolari e tre ai socialisti. Ma il successo maggiore i socialisti in Umbria in sintonia con l'andamento del risultato nazionale l'ebbero alle elezioni del 1919 quando elessero addirittura 5 deputati su 10. Dopo il biennio rosso anche in Umbria pesarono le iniziative fasciste del biennio nero e non a caso a Perugia il 28 ottobre 1922 davanti all'Hotel Brufani partì una delle principali delegazioni che contribuirono alla riuscita della marcia su Roma.
Alla apertura della nuova legislatura il leader socialista Giacomo Matteotti denunciò in parlamento le violenze, i brogli e le irregolarità che avevano segnato la campagna elettorale e per questo il 10 giugno fu rapito e assassinato da un gruppo di fascisti. Così le opposizioni decisero di non partecipare più ai lavori del nuovo parlamento ritirandosi (come i plebei dell'antica Roma) in un metaforico Aventino e rivolgendo un appello al Re perché varasse un nuovo governo in grado di provvedere ad un effettivo ripristino della legalità.
Mussolini reagisce con determinazione con l'oramai famoso discorso del 3 gennaio 1925 alla riapertura delle Camere che segna il passaggio da governo di coalizione a regime sostenendo che "se il fascismo è stata un'associazione a delinquere, io sono stato il capo di quella associazione" assumendosi la piena paternità del delitto. Era l'inizio vero e proprio del regime dittatoriale che avrebbe portato alla messa fuori legge dei partiti politici dell'opposizione con l'abolizione delle libertà di stampa, di opinione, di associazione.
Iniziava così una nuova fase della vita del parlamento italiano in un regime in cui lo Stato e le sue istituzioni a cominciare da quella parlamentare venivano progressivamente asservite alle volontà e al ruolo del partito unico, quello fascista.

 

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