Stampa
Venerdì 09 Aprile 2004

"Invertire il declino industriale"
"L'economia umbra dentro il sistema globalizzato, se n'è parlato in un dibattito a Perugia"    sve

di Alberto Stramaccioni



Nei giorni scorsi durante un dibattito svoltosi a Perugia sui forti rischi derivanti dal declino industriale che sta interessando l’Italia si è parlato del futuro scenario economico e produttivo del paese. 
I tanti interlocutori rappresentanti delle forze sociali non hanno mancato di condividere le forti preoccupazioni per l’andamento dell’economia italiana e di quella umbra sempre più interdipendenti nella dimensione di un’economia globalizzata.


Aldilà dei giochi di parole ormai la maggior parte degli osservatori hanno riconosciuto un declino dell'apparato industriale italiano. Questo ovviamente non significa non apprezzare la vitalità di comparti specifici dell'industria italiana o di singole imprese, le capacità tecniche insite o organizzative nel sostenere le esportazioni verso mercati lontani e di nuova industrializzazione. Si tratta invece di aver presente il pericolo generale derivante dal congiungersi dei ritardi di natura strutturale con quelli più recenti derivanti dai processi di globalizzazione, dall'unificazione del mercato unico e dall'adozione dell'euro. Si tratta di avere presente che l'Italia nel corso degli anni '60 e '70 è quasi completamente uscita da settori che sembravano avviati ad una forte crescita produttiva all'epoca del boom economico postbellico, come l'elettronica di consumo. Così come è uscita da settori industriali nei quali aveva occupato a lungo un posto di primo piano a livello mondiale come l’informatica, la chimica e la farmaceutica. Si tratta inoltre di avere presente che da un lato si sono rafforzati nuovi partners commerciali come la Cina e l’India, propensi a esportare beni di consumo che l’Italia produce e a importare beni capitali che l'Italia non produce. Dall’altro lato si sono rafforzate economie, come quella degli Stati Uniti, inclini all'offerta di prodotti, beni e servizi di consumo e strumentali, caratterizzati da economie di scala, ricerca e innovazione.
Tenendo conto di questi dati l'Italia si avvia a concludere l'anno con lo stesso modestissimo livello di crescita del 2002 (0,4%), sapendo che nel terzo trimestre dell'anno la crescita e stata dell'0,5, nel secondo trimestre dell'anno il dato è stato pari a 0,3%, mentre era stato 0,7% nel I trimestre. La fase di difficoltà si protrae ormai da due anni e non appaiono all'orizzonte chiari segni di svolta. I settori esposti alla concorrenza internazionale, come l'industria, fanno registrare tassi di crescita negativi, ciò anche a causa di un livello di esportazioni in diminuzione. Dati non confortanti anche sul fronte degli investimenti, ad esclusione del comparto delle costruzioni. La domanda interna non appare tale da sostenere la crescita, tenuto conto che una parte del suo aumento è soddisfatta dalle importazioni.
L'Italia in sostanza non sembra discostarsi dai più generali limiti della congiuntura europea. Ma se questo è vero per gli andamenti a breve termine, restano, come già ricordato, tendenze di natura strutturale divergenti rispetto ai principali competitori europei. Se sul medio periodo si registra un andamento migliore di altri paesi in termini di occupazione, ma con certi limiti, pesa tuttavia l’andamento negativo dei dati in termini di produttività e di esportazioni. Occorrerebbe da questo punto di vista introdurre delle discontinuità positive rispetto alle tendenze di medio periodo ormai consolidate, cosa che certo non appare affrontata nell'ultima legge Finanziaria e dal Pdef 2004-2007. 
A ciò si aggiunga il fatto che nel corso del 2003 l’inflazione si è attestata su livelli superiori a quelli medi registrati nel 2002, solo febbraio e ottobre '03 si sono posizionati su variazioni percentuali del 2,6, per il resto dei mesi 2,7 e 2,8%. Si tratta di risultati superiori all'inflazione media registrata nell'area euro (2,1%). Il dibattito italiano e stato a tratti infuocato intorno a un'inflazione percepita a livelli nettamente superiori a quelli dichiarati ufficialmente. Vi sono stati sicuramente servizi e prodotti (in particolare quelli alimentari) che hanno approfittato della prima fase di introduzione dell'euro per lucrare margini di guadagno (e su questo l'azione del governo non ha certo contribuito a fare chiarezza). Va però detto che se non si tenesse conto della contrazione dei prezzi del comparto comunicazioni, l'inflazione quest'anno si sarebbe posizionata subito sopra il 3.0% (percentuale che peraltro Eurostat già ci attribuisce).
Delicata è poi la questione della competitività del nostro sistema. Nel 1° trimestre 2003, per via dell'apprezzamento dell'euro, tutti i paesi che l'hanno adottato hanno visto aumentare il tasso di cambio reale e quindi diminuire la propria competitività. Per l'Italia l'indice si è posizionato a 106,1% (era a 102,6 nel 2002); in Germania si è passati dall'88,9 al 92,4% del I trimestre '03, in Francia dal 92,3 al 93,5% (più l'indice è alto minore è il livello di competitività). 
Al di là dei dati un recupero del "sistema Italia" in termini di competitività si realizza, con riferimento all'industria, innanzitutto elevando il contenuto tecnologico delle produzioni; secondariamente, ma non meno importante, attraverso il superamento dei ritardi nella propria dotazione complessiva di reti e infrastrutture.
Più in generale la tesi del declino dell'apparato industriale italiano ha trovato numerosi sostenitori nel periodo recente, pur essendo diversi gli accenti nelle differenti analisi. 
1) Uno dei temi cruciali riguarda la dimensione d'impresa nella realtà italiana. Se si prendono in considerazione le imprese manifatturiere (dati del Censimento '96) si rileva come la dimensione media risulti pari a 13,9 addetti (era 31,6 nel 1981). Sull'esigenza di aumentare la taglia media però esiste una condivisione generale. Di fronte al prevalere della dimensione medio-piccola delle imprese le valutazioni variano poi nel considerarne più gli aspetti positivi (specializzazione, flessibilità produttiva, propensione all'innovazione incrementale, capacità di stare sul mercato affidata soprattutto alla qualità dei prodotti, contenimento dei costi) o quelli negativi (minore applicazione di diritti verso i lavoratori, limiti di accesso al credito, struttura proprietaria tradizionale, minori risorse finanziarie, difficoltà di aggregazione). Così come variano le misure da intraprendere.
2) Un secondo aspetto largamente analizzato riguarda i limiti del modello di specializzazione italiano. Su questo tema si può dire che qualsiasi intervento non può non passare innanzitutto per una razionalizzazione/valorizzazione del patrimonio e dell'esperienza esistenti. Ciò non significa che non vadano presi in carico tutti i limiti della situazione esistente, recenti e meno recenti, che la letteratura in merito ha più volte indicato.
3) Un terzo aspetto riguarda il ruolo della grande impresa. Esso è imprescindibile in quanto solo le grandi imprese hanno le potenzialità per sviluppare in quantità e qualità significative investimenti produttivi, possibilità di fronteggiare i processi di globalizzazione, innovazione strategica, investimenti finanziari, alleanze internazionali. Contemporaneamente si valuta difficilmente praticabile l'insediamento di nuove grandi imprese oggi in Italia, facendo così pendere di nuovo la bilancia a favore di una razionalizzazione/aggregazione delle piccole e medie imprese. Una prospettiva nuova per la grande impresa potrebbe essere individuata nell'integrazione tra produzione e servizi, cosa certamente diversa dalla fuga operata da alcune holding industriali verso le public Utilities.
4) Nei primi anni '90, anche sulla base delle dinamiche in atto nel settore delle Macchine industriali o Beni strumentali (a partire quindi dall'Emilia-Romagna passando per Veneto e Piemonte) si ritenne che fosse in atto un processo di crescita della dimensione media d'impresa non suffragata però dai dati. Ma anche oggi vi è chi ritiene che esista un'esperienza non irrilevante di medie imprese che hanno affrontato con successo il salto verso i mercati internazionali. Si tratta di casi limitati di eccellenza che testimoniano come la classe imprenditoriale non ha esaurito le sue energie vitali e che si trova solo in una delicata fase di transizione da un modello di sviluppo fondato sulla flessibilità e la competitività di prezzo a uno più evoluto imperniato sulla sinergia tra vocazioni tradizionali e economia.
5) Tra i ritardi della dimensione industriale italiana può essere annoverata la relativa separatezza che esiste tra la presa in carico dei problemi direttamente connessi alla produzione e tutti quei fattori esterni che però agiscono con forza sulla produttività totale del sistema economico. Ciò indica la necessità di collocare (anche in termini di approccio culturale oltre che politico ed economico) le prospettive della politica industriale entro un più largo contesto di politica economica, partendo dalle infrastrutture e dal territorio per passare attraverso le reti, i servizi, la formazione e l'istruzione, per arrivare alla sanità e al sostegno sociale.
6) In questo quadro, tenendo conto dei vincoli posti dalla dimensione europea, è possibile arricchire la dimensione dello sviluppo locale, oltre intenti ed esperienze rigidamente programmatori e dirigisti. Una funzione di regolazione e di promozione può essere guidata dalle Regioni senza sottrarre ruolo e responsabilità a privati e istituzioni. 
Anzi è proprio su questo rapporto tra pubblico privato che può avviarsi una prospettiva di sviluppo per le regioni dalle caratteristiche economiche e produttive come quelle dell’Umbria. Ma è una tema questo sul quale converrà ritornare.