Stampa
Lunedì 05 Marzo 2007

"Interventi alla presentazione del volume di Alberto Stramaccioni “Storia d’Italia 1861-2006. Istituzioni, economia e società, un modello politico nell’Europa contemporanea”."

di Mario Tosti, Stefania Giannini, Roberto Fedi, Giuliano Procacci Romano Ugolini     sdfs

Presentazione

Pubblichiamo di seguito il testo dei resoconti (rivisto dagli autori) degli interventi svolti alla presentazione del volume di Alberto Stramaccioni “Storia d’Italia 1861-2006. Istituzioni, economia e società, un modello politico nell’Europa contemporanea”, pubblicato dagli Editori Riuniti nel 2006.
L’incontro pubblico è stato organizzato dall’Università per Stranieri di Perugia e dall’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea e si è tenuto il 5 marzo 2006 a Perugia, presso la Sala della Vaccara di Palazzo dei Priori.
Alla presentazione sono intervenuti Mario Tosti, Presidente dell’Isuc e docente di Storia moderna alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Perugia; Stefania Giannini, Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia; Roberto Fedi, Preside della Facoltà di Lingua e Cultura Italiana all’Università per Stranieri di Perugia; Giuliano Procacci, docente emerito all’Università “La Sapienza” di Roma; Romano Ugolini, docente di Storia Contemporanea e Preside della Facoltà di Scienze della Formazione all’Università degli Studi di Perugia e l’autore, Alberto Stramacccioni, docente di Storia Contemporanea all’Università per Stranieri di Perugia. 


Perugia, marzo 2007





Mario Tosti
Presidente dell’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea, docente universitario


Talvolta con ironia si dice, caro Alberto, che voi deputati avete tempo anche per scrivere libri. Ormai ci hai abituato a scriverne diversi, negli ultimi venti anni. Però, come giustamente sottolinei nella presentazione del tuo ultimo volume, i libri difficilmente nascono dall’alba al tramonto, sono frutto di ricerche, spesso molto lunghe, negli archivi o nelle biblioteche. Questo libro, credo che sia pensato ed elaborato da almeno cinque o sei anni ed è anche il frutto della tua attività didattica presso l’Università per Stranieri. E quindi pensato per presentare anche agli studenti stranieri la storia d’Italia che è molto complessa, perché rispetto al resto delle nazioni europee ha un suo percorso quantomeno originale. 
Ricordo che, discutendo del titolo di questo volume si pensava, almeno tu ritenevi, che forse questa particolarità italiana andasse espressa anche nel sottotitolo e così in effetti è stato. Il volume evidenzia una particolare angolazione interpretativa anche perchè Alberto Stramaccioni, da oltre un ventennio ha effettuato i suoi studi sempre nell’ambito della storia delle istituzioni e dei sistemi politici e sociali lungo l’Ottocento e il Novecento, a partire dall’esperienza delle repubbliche giacobine. Insomma, ha al suo attivo una serie di ricerche e di studi che gli permettono ormai di essere annoverato sicuramente tra gli studiosi umbri più attenti alle evoluzioni storiche dei sistemi e dei movimenti politici in Italia ma anche negli altri paesi occidentali. 
Il volume ha quindi una sua chiave di lettura espressione di questi studi fondata sull’analisi del rapporto tra le istituzioni e la società che fin dall’unità ha caratterizzato la storia d’Italia. E il tutto in una comparazione con le esperienze delle altre nazioni europee. 
Guardare la storia d’Italia dal punto di vista istituzionale non deve apparire una scelta verticistica. Credo che sia una scelta originale e valida perché, se leggerete il testo, troverete come in particolare nel periodo repubblicano, la storia d’Italia è ruotata intorno a cinque poteri: i Partiti, il Governo, il Parlamento, il Presidente della Repubblica e la Magistratura e questo mi sembra che sia un elemento incontrovertibile e da analizzare approfonditamente. Ed è proprio dalla dialettica tra queste istituzioni che derivano una serie di contrasti e di equilibri politici e la particolarità stessa della nostra esperienza nazionale. Basti pensare che l’unificazione avvenne in contrasto con un potere, quello della Chiesa, tradizionalmente radicato nella società italiana, che portò per decenni alla non partecipazione alla vita politica dei cattolici e questo significò molto nella rappresentanza democratica e nella dialettica, tra tutti gli attori della vita istituzionale. 
A me pare che negli ultimi sessant’anni, la dialettica tra le istituzioni si sia concentrata intorno a due poli: da una parte i Partiti dall’altra il Governo. Non a caso un volume di Pietro Scoppola che ha avuto molto successo è intitolato “La Repubblica dei partiti” a sottolineare questa forte presenza. Ma tale dualità se è stata un elemento di forza, di equilibrio, di stabilità allo stesso tempo si è rivelata una debolezza del nostro sistema politico che ha avuto momenti di frattura. Spesso la crisi dei Partiti e la crisi del Governo hanno aperto la strada ad altri poteri che hanno lacerato, e scosso il sistema senza però mettere in crisi il Paese in modo definitivo. Mi pare che sia anche questa la chiave del libro di Stramaccioni, ma poi l’Autore la confermerà o meno. 
Io mi fermo qui, ringrazio tutti i numerosi presenti e do senz’altro la parola ai relatori. Innanzitutto alla professoressa Stefania Giannini, Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, per passare poi al professor Roberto Fedi Preside della Facoltà di Lingua e Cultura Italiana e successivamente prenderanno la parola due autorevoli storici che esamineranno il volume con la loro nota competenza di studiosi dell’età contemporanea.



Stefania Giannini
Rettore dell’Università per Stranieri
di Perugia


Con piacere mi trovo a distanza di quasi un anno a presenziare, con un contributo che - lo annuncio fin da subito - non potrà essere specialistico, alla presentazione del volume di Alberto Stramaccioni. Nel primo caso a cui alludevo, si presentava un volume che il professor Stramaccioni ha dedicato alla storia dell’Università per Stranieri di Perugia e al suo ruolo all’interno del sistema culturale e politico del Paese, dal momento della sua fondazione fino ad oggi. In questo caso, si tratta di un libro da storico, come è stato già ampiamente annunciato dal nostro presidente, il prof. Tosti, con il progetto molto ambizioso di ricostruire sub specie istituzionale il profilo storico dell’Italia dal 1861 ai giorni nostri, con un’attenzione particolare ai movimenti. 
Si tratta, intanto, di una lettura di un lungo periodo della storia d’Italia, attraversato da vicende politiche di grande complessità. Il mondo istituzionale è stato scelto come punto di riferimento essenziale, con una prospettiva certamente non scontata nelle opere di questo genere.
La prospettiva istituzionale di questo libro, concordo con quanto detto dal collega Tosti, è una prospettiva molto originale che permette di leggere vicende a noi tutti note sotto l’angolo di vista delle istituzioni.
Vorrei dedicare alcune riflessioni all’aspetto del volume che ho trovato di maggiore interesse e cioè l’attenzione ai ‘movimenti di base’ che hanno caratterizzato e, in qualche caso, condizionato le vicende politiche della storia più recente d’Italia. Mi riferisco specialmente al periodo descritto nel capitolo ottavo del libro: dai movimenti studenteschi del Sessantotto fino ad oggi. Questi movimenti hanno collegato le trasformazioni politiche e culturali del nostro Paese, direttamente e al tempo stesso, con i cambiamenti avvenuti in Europa e nel resto del mondo. 
I movimenti studenteschi che esplodono, soprattutto nella contestazione del 1968, e che poi si sviluppano negli anni successivi, hanno rivendicato ed ottenuto una serie di diritti che non erano stati ancora consolidati: il diritto all’assemblea, per citare la prima cosa che la mia generazione ha trovato già come dato di fatto nelle scuole superiori italiane e che, invece, non era principio acquisito nel periodo precedente, oppure il diritto ad esprimere una propria organizzata opinione sull’evoluzione e la trasformazione del sistema scolastico e universitario. Si tratta di fenomeni culturali che sono maturati a partire dal discusso e per molti aspetti anche ormai ampiamente revisionato 1968. Ho notato, inoltre, con un certo interesse e in alcuni casi anche con sorpresa, come diversi punti di contestazione e di rivendicazione da parte del movimento studentesco, nonostante coincidessero con qualche movimento operaio e quindi con la base produttiva del Paese, non abbiano portato, così meccanicamente, agli stessi risultati ottenuti invece dalla classe operaia. Cito l’aumento salariale che è stato rivendicato e ottenuto tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta e che ha portato ad una condizione di allineamento dell’Italia con altri Paesi europei insieme alla riduzione dell’orario di lavoro. Tanto ed ugualmente non può dirsi, per esempio, per la puntuale contestazione della riforma scolastica e universitaria, che - non è un caso - è tutt’ora oggetto di discussione vivace, sia da parte degli studenti che dei docenti e degli operatori nel mondo dell’istruzione e della scuola. Si tratta, dunque, di due percorsi che sono andati avanti parallelamente e che poi hanno dato esiti in alcuni casi molto diversi. 
Gli altri elementi che mi sono parsi interessanti riguardano, infine, la prospettiva europea, cioè l’inserimento di tutto questo complesso movimento di trasformazione del Paese nella cornice internazionale. Europeo è il progetto annunciato nel titolo ma non mancano i riferimenti a vicende, come quella della guerra del Vietnam, di dominio internazionale. 
Il volume apre pertanto, anche per chi non fa lo storico di mestiere, orizzonti sicuramente innovativi, sia per il taglio metodologico che per il modo in cui i contenuti sono organizzati. Con grande piacere e soddisfazione credo si debba accogliere questo ulteriore frutto dell’attività di ricerca di Alberto Stramaccioni.


Roberto Fedi
Preside della Facoltà di lingua e Cultura italiana
all’Università per Stranieri di Perugia


La lettura del libro di Alberto Stramaccioni ha sollecitato anche in me una serie di riflessioni, come accade quando si ha a che fare con testi che non lasciano le cose come stanno – in questo caso sul piano storiografico. Anche riflessioni di tipo autobiografico, visto che una buona parte del corposo volume è dedicata agli anni recenti, quelli che vanno dagli anni Settanta, o fine Sessanta, a oggi: che è poi la mia personale memoria.
La rilettura di Stramaccioni è anche in questo caso attenta e puntuale, senza sbavature né inserti polemici. È quindi utilissima a ripercorrere un passato recente o recentissimo, i cui effetti scontiamo ancora oggi. Mi è piaciuta molto, nel libro, la ricostruzione limpida e senza concessioni populistiche del cosiddetto Sessantotto, soprattutto di quelli che furono quei giorni convulsi da cui, se non altro cronologicamente, sarebbero derivati anni oscurissimi per la nostra Repubblica – che ancora allungano la loro ombra sui giorni di oggi. Ripercorrerli con l’ausilio di questo libro può insegnare molte cose: per esempio, come a partire da allora si sia potuta creare in questo paese una frattura, mai più sanata, fra classe politica e Università e Scuola. Una classe politica vecchia e per molti versi arretrata rispetto al paese non riuscì, allora, a cogliere e magari incanalare i fermenti positivi che ci furono in quei mesi agitati (la richiesta di nuove sedi, per esempio; di nuovi modi di studiare; del diritto allo studio, della partecipazione), ripiegando sul consueto modus operandi italico: concessioni di tipo populistico o para-sindacale, agevolazioni a pioggia, malleabilità, clientelismo… Senza che nessuno dei nodi che, in quel periodo, erano venuti al pettine venisse veramente non si dice sciolto, ma nemmeno affrontato. L’esito, infausto, è sotto gli occhi di tutti: un’Università declassata, e una Scuola ormai allo sbando totale.
Ecco, un libro di storia (non sono uno storico, se non della letteratura e della cultura), se serve ad avviare una riflessione e una riconsiderazione, è di sicuro un libro riuscito. Stramaccioni legge e racconta la storia d’Italia degli ultimi centocinquant’anni senza tralasciare nulla (il libro è pieno di numeri e di percentuali, giustamente), inserendo la vita politica dell’Italia in quella coeva dell’Europa (e anche questo è un merito non da poco), sciorinando alla fine una bibliografia ricchissima e utilissima, ma senza tediare il lettore non specialista, e anzi invitandolo ad andare avanti, stuzzicando la sua curiosità intellettuale. Non è cosa da poco davvero, dato che da sempre e autorevolmente si è fatto carico alla storiografia italiana di una pesantezza espositiva tale da scoraggiare il lettore non propriamente accademico. Da qui l’auspicio, che un libro di questo genere possa avere anche una destinazione scolastica o almeno universitaria (chi scrive è Preside di una Facoltà umanistica), data la generale ignoranza – in certi casi veramente inimmaginabile solo ieri – dei fatti della storia italiana in generazioni che sono uscite da una Scuola depressa e demotivata, ormai senza più stimoli e depredata di qualsiasi prestigio anche sociale.
Il volume di cui stiamo parlando è anche questo: una fotografia, attenta e partecipe, di un paese difficile bellicoso e spesso preda di un ribellismo inconcludente, alla ricerca di qualcosa in un continente che, spesso, l’ha subito e non certo apprezzato. Anche per questo, mi sembra, è lodevole, proprio per lo sforzo di rendere evidente una complessità che è la nostra maledizione, forse, ma che potrebbe, se ben sfruttata, essere anche – speriamo, ma ci crediamo poco – la nostra fortuna, domani.


Giuliano Procacci
Docente Emerito presso l’Università
“La Sapienza” di Roma


Ciò che caratterizza un libro di storia è, a mio giudizio, il rapporto che in esso si stabilisce tra il racconto e il giudizio, intendendo per racconto gli eventi, i fatti, le date e, usiamo una parola che è stata usata in senso deteriore, le nozioni, il nozionismo. Accade molto spesso e negli ultimi tempi accade sempre più di frequente che l’elemento giudizio venga privilegiato nei confronti della fattualità, del racconto, della ricostruzione. Al punto che leggendo certi volumi, certi lavori, italiani, ma anche stranieri, si ha spesso l’impressione che i fatti siano selezionati in funzione di un certo giudizio, o di una certa ipotesi, che può essere più o meno valida o più o meno discutibile. E questo non è un buon metodo per scrivere la storia. La priorità, a mio giudizio, deve partire dalla fattualità, dal racconto, dalla ricostruzione paziente di quanti più fatti possibile. E questo è il metodo che, secondo me giustamente, ha seguito Alberto Stramaccioni. 
Il suo libro pullula di fatti, direi ad un certo momento ce ne sono anche troppi. Ma è bene che sia così perché soltanto su questa base solida, si può alla fine costruire un giudizio. Con questo non voglio dire che la sua sia semplicemente una cronaca o un ammasso di fatti perché, il giudizio non manca mai, solo che è filtrato attraverso la ricostruzione degli eventi e sollecita in quanto tale da parte del lettore un approccio critico. Faccio un esempio al limite: il lettore può anche arrivare data la messe di fatti, di elementi di giudizio che gli vengono messi a disposizione, non dico ad una conclusione contraria, ma ad una conclusione diversa da quella a cui è giunto l’autore. E questo, lo vorrei sottolineare perché a mio giudizio è il maggiore pregio del libro di Alberto Stramaccioni. Ma non è il solo. 
Rimango sempre nel campo dell’approccio metodologico e in particolare al rapporto tra le varie storie, la storia politica, la storia economica e la storia della cultura. In un’opera di questo genere tutte e tre devono essere rappresentate e infatti Stramaccioni lo fa. Vi sono molti punti in cui viene presa in considerazione l’evoluzione della congiuntura economica, sempre tenuta presente e vi sono pagine e osservazioni sempre molto stimolanti sulla storia culturale italiana negli ultimi anni. Tuttavia è mia convinzione, che forse può essere non condivisa, che malgrado tutto la storia politica rimanga la spina dorsale della Storia, come avviene nel libro di Stramaccioni. Dicendo storia politica non intendo soltanto la storia di determinati attori quali i governi, le istituzioni, ma la storia di una pluralità di soggetti, dei sindacati, dei partiti politici, dei movimenti, degli intellettuali, delle Chiese. E in questo senso risulta un’interazione continua tra i vari piani dello sviluppo storico della quale la storia politica è la spina dorsale 
Un terzo pregio è rappresentato da un’ ottica non provinciale, cioè dall’inquadramento della storia italiana nel contesto, non soltanto della storia europea, ma della storia contemporanea mondiale, del pianeta. Oggi si parla molto di globalizzazione, ma la globalizzazione non è nata ieri. Essa è nata con Cristoforo Colombo ed è venuta stringendo le sue maglie nel corso dell’età moderna e contemporanea. Mi riferisco al periodo successivo, in particolare alla seconda guerra mondiale, in cui non c’è dubbio che l’esistenza di un bipolarismo ha condizionato profondamente la vita politica italiana. Adopero il termine “bipolarismo” in luogo di quello “guerra fredda” perché lo ritengo più idoneo. Quando si parla di guerra fredda si ha l’impressione di un’eterna glaciazione come se i rapporti tra le due superpotenze fossero rimasti sempre gli stessi dal 1947, dalla dottrina Truman fino alla caduta del muro di Berlino. In realtà la guerra fredda ha avuto i suoi alti e i suoi bassi, ha avuto momenti di tensione estrema come il blocco di Berlino nel ‘48, la crisi di Cuba nel ’62, la crisi del Muro nel ‘61 e momenti di distensione, ciò ha inciso nella politica italiana, non è una caso ad esempio che l’esperimento del centrosinistra coincida con gli anni in cui questa tensione conosce un relativo allentamento, una distensione. Né si può sottovalutare il peso che ha avuto sulla vita italiana, soprattutto sull’economia italiana, la fine del cambio fisso tra la lira e il dollaro nel 1971. Io non sono uno storico economico, ma senza dubbio molte delle vicende e delle traversie dell’economia italiana degli anni Settanta e Ottanta vanno ricondotte a questo diverso quadro internazionale. Con la fine degli accordi di Bretton Woods cambia il mondo, quindi l’Italia non può non risentire degli effetti di questo cambiamento. 
Queste sono osservazioni di metodo, di carattere generale, ma ritengo che siano sufficienti per far considerare quanto sia valido l’approccio con il quale Alberto Stramaccioni ha affrontato la complessa materia oggetto del suo libro. 
Veniamo a questioni più particolari. A due momenti controversi e che sono stati anche recentemente oggetto di polemiche in campo politico e giornalistico. Mi riferisco in primo luogo al problema delle Foibe. Nelle pagine in cui Stramaccioni si imbatte nella questione troviamo l’espressione “pulizia etnica” una definizione che, come noto, che è stata usata dal nostro Presidente della Repubblica. Tuttavia se si legge tutta la pagina si vede che la preoccupazione di Stramaccioni sia quella di inserire questo giudizio così drastico, così impegnativo, nel contesto della storia della regione Dalmata-istriana nel corso della guerra mondiale e quindi si fa cenno alle deportazioni fatte da parte italiana della popolazione slovena, si forniscono al lettore elementi per un approccio critico all’argomento. 
Il secondo esempio è relativo ad un personaggio piuttosto controverso e qui mi limiterei a leggere quello che scrive Stramaccioni. Il personaggio controverso di cui parlo è Bettino Craxi. Scrive Stramaccioni “…questo periodo della storia italiana è stato segnato dal peso crescente esercitato dalla politica socialista di Bettino Craxi in tante e diverse vicende. E al di là degli esiti politici e personali della sua particolare esperienza va detto che Craxi comprese che occorreva adottare posizioni coraggiosamente riformiste, imprimendo una svolta nella tradizionale politica del Psi per permettere ai socialisti di guidare la modernizzazione della società italiana. Combatté il partito comunista di Enrico Berlinguer perché il suo progetto avrebbe avuto successo soltanto se il Psi fosse riuscito a conquistare i ceti sociali che avevano votato fino ad allora per il Pci. Buona parte delle sue iniziative politiche negli anni seguenti furono il corollario di questo ambizioso disegno. Riscoprì Proudhon, grande avversario di Marx, perché voleva dare al suo partito un antenato diverso da quello del Pci. Rispolverò l’immagine di Garibaldi per dare al Psi una tradizione risorgimentale e dimostrare che il socialismo poteva essere patriottico. Tese una mano ai dissidenti del mondo sovietico e alle sinistre democratiche dell’America Latina per dimostrare che il Psi, a differenza del Pci, aveva un’anima libertaria. Volle la riforma della scala mobile poiché rischiava di diventare un capestro al collo dell’economia italiana...” “…Accanto a questi meriti ebbe certo dei limiti consistenti nella spregiudicatezza con cui ricorse alle tangenti, per finanziare il partito. Responsabilità, naturalmente, non da poco. Accusato di corruzione morì in Tunisia...” Questa valutazione mi sembra estremamente equilibrata e, a mio giudizio, condivisibile. 
E fin qui mi sono limitato a mettere in luce le assi metodologiche del libro di Stramaccioni e a fare alcuni esempi. 
Vorrei ora entrare nel merito. Il mio compito e quello di Ugolini, come scritto nell’invito, è quello di discutere. Quindi vorrei discutere. Stramaccioni parla di “modello italiano”. Io devo confessare che questa espressione non mi persuade molto, preferisco parlare di “caratteri originari o originali” della storia italiana rispetto ad altri Paesi, ma non voglio formalizzarmi in questioni linguistiche o bizantine. Parliamo pure di modello e discutiamo di questo modello italiano. La prima riflessione che vorrei fare è la seguente. Se esiste, e nella misura in cui esiste, un modello applicabile all’Italia pre-fascista e anche a quella post-fascista, esso è quello di una convergenza verso il centro di uomini e gruppi che, pur di diversa formazione politica, culturale e anche religiosa, hanno in comune certi valori. Nel caso della classe politica risorgimentale questi erano i valori del Risorgimento e della laicità. Lo Stato italiano, come ha scritto, Luciano Cafagna, è nato come “Stato scomunicato”. Eppure anche i credenti che facevano parte di questa élite che mise in piedi lo Stato italiano erano anch’essi laici. Un esempio fra tutti è quello di Alessandro Manzoni un credente che accettò la nomina di senatore di quel Regno d’Italia che aveva aperto a cannonate la breccia di Porta Pia. Quindi esisteva un’unità profonda e ciò spiega perché questi uomini di orientamento, posizioni, formazioni culturali diverse potessero dar vita ad una convergenza. A inaugurare questo sistema di convergenze fu lo stesso Camillo Benso conte di Cavour il quale attraverso la formazione della Società Nazionale, riuscì ad attrarre al Piemonte, a casa Savoia molti esponenti del partito mazziniano o di altri movimenti e porre le premesse per il successo dell’Unità d’Italia. Questo primo modello di convergenza verso una politica di centro e una grande maggioranza parlamentare, il cosiddetto connubio, si riprodusse, sia pure in forme diverse e deteriori, con Depretis. Qui la parola d’obbligo è quella di “trasformismo”, un termine che usualmente viene recepito in un senso negativo. Eppure Benedetto Croce la pensava diversamente. Il trasformismo fu, nelle condizioni estremamente difficili in cui si trovava ad operare la classe dirigente di allora (pensate che all’inizio del novecento il tasso di analfabetismo in Italia era del 60% e l’Italia, come detto prima, era un paese scomunicato in cui nelle cerimonie civili non c’era la confortante presenza del prete). Riuscì a combinare qualcosa, avviare un processo di decollo economico e di costruzione di uno Stato, di una democrazia certo molto asfittica che proseguì, superata la crisi di fine secolo, con Giolitti, a proposito del quale è nota la formula di Gaetano Salvemini “il ministro della malavita”. A mio giudizio rimane valido il giudizio che ne dette un altro grande politico italiano, Palmiro Togliatti, in un discorso che tenne a Torino nel 1951.
Se si fa dunque un bilancio complessivo, bisogna riconoscere che questi governi di coalizione hanno accompagnato un limitato sviluppo e hanno consentito la formazione di una democrazia asfittica che ha resistito peraltro alla crisi di fine secolo.
Il trauma avviene con la prima guerra mondiale, una guerra che il Paese non voleva. Non la volevano i socialisti, non la volevano i cattolici, non la voleva Giolitti, non la voleva il Parlamento. L’entrata in guerra dell’Italia fu, a mio giudizio, un “mezzo colpo di Stato”, le cui conseguenze furono gravissime sulla vita politica italiana. 
Non parlo delle vittime, delle morti, dei dolori che la guerra mondiale generò. Ma una ferita più profonda, più grave. Fino ad allora un opinione pubblica in senso moderno non esisteva in un paese di analfabeti, di gente che se si muoveva dal proprio paese lo faceva per andare in America e non per andare nella città vicina. In un Paese di questo tipo un’opinione pubblica era molto limitata. Attraverso l’esperienza della guerra che tutti fanno, i soldati al fronte, le loro famiglie ad aspettarli a casa, nasce un’opinione pubblica estremamente polarizzata tra quelli che sono stati per la guerra e quelli che sono stati contro. Assistiamo quindi ad una polarizzazione estrema dell’opinione pubblica e i frutti di questa polarizzazione sono una sorta di guerra civile, limitata peraltro ad alcune regioni d’Italia (mi riferisco all’Emilia alla Toscana) in cui dilaga il fenomeno dello squadrismo. La conclusione, come sapete, fu la vittoria del regime fascista. 
Vorrei venire ora alla parte relativa all’Italia post fascista richiamando la vostra attenzione su un passo relativo al giudizio sulla Resistenza. Scrive Stramaccioni “…a combattere fu solo una parte, tra i duecentomila e i quattrocentomila partigiani tra il 1943 e il 1945, ma questa mobilitazione antifascista e antinazista interpretava un sentimento diffuso nella popolazione italiana, che si esprimeva nella volontà di liberarsi dalla guerra, dall’occupazione nazista, per una reale pacificazione nazionale dopo anni di violenza e di miseria. L’elemento dominante della mobilitazione resistenziale italiana, anche a differenza di altri paesi europei stava infatti nel suo carattere prevalente di movimento di liberazione nazionale”. Io sottoscrivo pienamente questo giudizio, ritengo cioè che per Resistenza non vada intesa solo l’azione armata di alcune minoranze, ma vada inteso un sostegno tacito, talvolta anche attivo di una grandissima parte della popolazione italiana. Noi italiani abbiamo tanti difetti ma anche dei pregi, tra i quali quello di non essere stupidi. Nel 1943 la grande parte della popolazione italiana aveva capito quale sarebbe stato l’esito della guerra e si rendeva perfettamente conto che la pace sarebbe stata raggiunta solo attraverso la vittoria più rapida possibile delle forze alleate e ne traeva le conseguenze. C’era in ciò anche un tanto di opportunismo, non sono tutti eroi, ma ciò vale per tutti gli uomini, non solo per gli italiani. Se la Resistenza ebbe questo carattere corale, è evidente che non la si può definire una “lunga e sanguinosa guerra civile”, una formula cui Stramaccioni ricorre spesso. Certo la Resistenza fu un fenomeno estremamente complesso e non v’è dubbio che alcuni elementi di guerra civile vi furono, ci furono italiani che spararono a italiani. Ma che questi elementi fossero quelli dominanti io non lo credo, anche per esperienza personale. Io sono stato partigiano in una regione oltrettutto che era stata occupata dai tedeschi ed era stata di fatto annessa alla Germania e in cui i fascisti erano del tutto emarginati, ma esistevano solo partigiani e tedeschi. Altrove non era così e può darsi che questa mia esperienza personale condizioni il mio giudizio, tuttavia la mia opinione rimane quella che ho avuto occasione di trattare nella postfazione di “Storia degli italiani”. Il giudizio sulla Resistenza si riverbera su quello degli anni immediatamente successivi. Desidero a questo proposito esprimere la mia perplessità sul termine di “ciellenismo” come se si trattasse di un governo di “vincitori della guerra civile”, i quali, in cerca di una legittimazione si appellano ai valori dell’antifascismo. Invece di governi ciellenisti, che mi sembra una formula limitativa, riduttiva, occorra parlare di governi della ricostruzione, che in quanto tali, assumendo l’obiettivo di ricostruire un paese ridotto a pezzi, interpretavano l’aspirazione più profonda, più reale delle grandi masse popolari italiane. Voglio dire una cosa, che può apparire paradossale. La riprova l’abbiamo nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948. Se le consideriamo da un punto di vista strettamente politico è risaputo che la Dc ebbe la maggioranza quasi assoluta e le sinistre subirono una sconfitta. Se però le consideriamo da un’altra ottica, esse furono un plebiscito. Più dell’80% dei consensi ai partiti che avevano portato avanti la ricostruzione e la Costituzione che era stata approvata da questi partiti. 
Questa solidarietà di fondo cementata negli anni della Resistenza e della ricostruzione sopravvisse agli aspri conflitti degli anni Cinquanta e in una certa misura si ricompose nei momenti di crisi più acuta. Mi riferisco agli anni di piombo e alla stagione dell’unità nazionale, breve, ma decisiva. E ciò che usualmente si intende con l’espressione “arco costituzionale” che comprendeva anche il partito comunista. Se mi consentite un altro ricordo personale, io ho conosciuto dall’interno sia il partito comunista italiano che quello francese. Quest’ultimo, dopo l’inizio della guerra fredda si barricò non solo in un suo campo trincerato politico, ma anche in una subcultura, rifiutando un vero confronto con altre correnti culturali. Non fu questo, malgrado la conventio ad excludendum, il caso del Pci: non solo esso tenne aperte le vie del dialogo culturale, ma non rinunciò ad un’azione di stimolo e di proposta politica. Mi riferisco in particolare al movimento di occupazione delle terre che contribuì all’approvazione della riforma agraria, al piano del lavoro della Cgil e, più in generale, alla atteggiamento critico, ma non preclusivo verso il centrosinistra. Se nel corso degli anni Sessanta e del miracolo economico, l’Italia si trasformò da una democrazia asfittica ad una democrazia matura lo si deve anche a questo tacito concorso di forze politiche contrapposte.
Prima o poi tutti i cicli politici si esauriscono e si chiudono e ciò vale anche per quello iniziato tra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta. Se ne ebbe un primo sintomo con la contestazione del 1968. Essa fu al tempo stesso un segno di vitalità (se gli studenti iscritti all’Università non fossero raddoppiati e centinaia di lavoratori meridionali non fossero emigrati al Nord, le loro lotte non avrebbero avuto l’impatto che esse ebbero) e di crisi, di scollatura di un “sistema”, per usare un termine allora corrente. Più tardi si parlò di partitocrazia. Mi si consenta a questo proposito una sola osservazione. Non fu la partitocrazia a generare la crisi ma semmai la crisi a generare la partitocrazia. La crisi durò a lungo e si concluse soltanto nel 1992. Da allora è iniziato un nuovo ciclo della storia italiana i cui esiti non sono prevedibili. Alberto Stramaccioni, pur proseguendo la sua esposizione fino ai nostri giorni, se ne mostra pienamente consapevole e ci offre una testimonianza del suo impegno culturale e politico. Voglio perciò ringraziarlo per averci stimolato e aiutato a riflettere sulla storia di questo nostro difficile Paese. Grazie.



Romano Ugolini
Docente di Storia contemporanea
Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Perugia


È per me un grande piacere aver avuto l’occasione di leggere il libro di Alberto Stramaccioni e di partecipare alla sua presentazione. Ritengo che il mio compito sia in parte quello di illustrare il contenuto dell’opera, come anche ha fatto il collega Giuliano Procacci in precedenza, ma anche, in parte, di considerare alcuni aspetti di discussione. In effetti, il lavoro di Stramaccioni si presta a due chiavi di lettura: la prima è connessa con l’uso didattico, mentre la seconda si lega ad una interpretazione della storia italiana in chiave europea e internazionale, a partire dal 1861 per arrivare al 2006.
Il volume, diviso in dieci capitoli, si chiude con l’elezione di Giorgio Napolitano a Presidente della Repubblica nel maggio 2006. La prima novità è che sui dieci capitoli, ben cinque sono dedicati al periodo successivo al secondo conflitto mondiale, e quindi “solo” la metà precedente è dedicata alla fase storica che va dall’Unità fino al 1943. Questa suddivisione si pone in netta controtendenza rispetto alla normale stesura dei lavori: abbiamo quindi una analisi originale, non comune, di un periodo, quello vicino ai nostri tempi, che ancora non è stato trattato in maniera serena ed equilibrata, cosa che invece Stramaccioni realizza in questo lavoro. 

Vorrei citare un episodio che ritengo molto esemplificativo di una tendenza, oggi diffusa soprattutto tra i giovani, anche se, di questa tendenza, rispecchia per certi versi l’espressione più radicale. Nella mia attività didattica mi è capitato di chiedere ad una mia studentessa di parlarmi delle elezioni del 18 aprile 1948. Questa studentessa mi ha guardato con aria intimorita e poi, chinando lo sguardo, ha detto “Professore, non mi chieda di politica”. Il fatto che fossero passati quasi sessant’anni da quelle elezioni era una cosa per lei irrilevante. Ritengo questo un episodio piuttosto significativo per introdurre due argomenti che emergono dall’opera. Il primo è il senso della politica, su cui Stramaccioni insiste soprattutto all’inizio del suo lavoro. La politica, proseguendo nell’esempio, è qualcosa in cui una povera ragazza timorata di Dio non può essere immischiata, la politica è una cosa viziosa e non una cosa nobile. Dal che consegue il disinteresse per avvenimenti che pure indiscutibilmente la riguardano, essendo elementi costitutivi quanto meno della sua vita odierna. Il secondo argomento, ed è una delle questioni più ostiche dal punto di vista didattico, è che gli studenti non hanno generalmente una preparazione di base concernente gli anni dal periodo fascista in poi. Discutere in modo approfondito di “compromesso storico” o del secondo dopoguerra è impossibile all’Università perché sono argomenti che normalmente non vengono affrontati nella scuola secondaria, probabilmente per via di una tendenza tra gli insegnanti delle scuole superiori a non impegnarsi su questi temi. Nei casi di insegnanti particolarmente coraggiosi, si arriva al fascismo, ma ci si ferma alla genesi e non se ne affronta la fine.
La realtà è che ci troviamo di fronte ad un vasto terreno incolto. Da un punto di vista didattico, perciò, ben venga questo lavoro, e il modo in cui Stramaccioni affronta il suo tema: in chiave istituzionale, in chiave economica, in chiave di società. Questo, didatticamente, è un aspetto senz’altro positivo. Anche perché una delle questioni su cui si dibatte, e di cui è difficile venire a capo, è che nella tradizione didattica italiana a livello universitario, noi abbiamo una strana situazione. La storia politica si affronta e si insegna in un certo tipo di facoltà, quella economica in altra facoltà, quella delle relazioni internazionali in una terza facoltà ancora. Ovviamente se pensiamo alla storia contemporanea, intesa come storia degli ultimi cinquant’anni, questa divisione non ha più senso. Procacci parlava prima della denuncia degli accordi di Bretton Woods dell’agosto del 1971, vale a dire la fine della parità oro-dollaro voluta da Nixon: questo è un tipico esempio di avvenimento che generalmente sparisce da libri che non siano dedicati alla storia economica. Eppure, tutti sappiamo quanto questo avvenimento abbia influito sulla successiva politica dei diversi paesi. Una storia generale del periodo, da un punto di vista didattico, è necessaria.
Alberto Stramaccioni insiste molto sui risultati elettorali e sui diversi sistemi adottati, dal maggioritario al proporzionale, fino agli ultimi esiti delle urne. Il discorso è molto interessante, ma è rischioso se rapportato all’Ottocento. E’ una scelta audace, perché è estremamente difficile nei risultati elettorali delle elezioni postunitarie, attribuire così drasticamente i deputati ad un’ala o a un’altra; normalmente su questo la storiografia porta ad avere opinioni contrastate, tuttavia l’Autore offre certamente un’idea di massima dei risultati elettorali, delle varie maggioranze che si formano, nonché delle diverse situazioni così come vengono a verificarsi ancora in assenza di partiti organizzati.
In conclusione, quindi, vi è una lettura in chiave didattica del lavoro di Stramaccioni, che in questo ambito è certamente utile, dal momento che si riscontra una carenza assoluta di conoscenza da parte degli studenti della realtà del secondo dopoguerra. Vi sono pochi lavori che trattino la materia, e tra questi non vi sono studi complessivi che da un lato presentino i fatti e dall’altro l’interpretazione in maniera serena ed equilibrata. 
Non vorrei però soffermarmi più di tanto su questo tema, pur tenendo a sottolinearlo. Vorrei ora invece dare spazio ad alcune riflessioni suscitate dalla lettura di questo volume. Mi è estremamente chiaro il perché della prima parte del sottotitolo: “Istituzioni, economia e società”. L’altra parte del sottotitolo, “Un modello politico nell’Europa contemporanea”, invece, mi ha indotto a pormi alcuni interrogativi. Qual è il senso? Se ho interpretato bene il significato della questione posta da Stramaccioni, credo si tratti di analizzare la situazione italiana come un modello, paragonandolo poi ad altri modelli, come quello francese o tedesco; modelli europei che possano in qualche misura marcare le differenze, o le somiglianze, o ancora le convergenze. In realtà, il rischio è quello di non vedere come l’Europa sia inserita in una realtà complessiva che di europeo ha molto poco. 
La centralità dell’Europa è certamente un’aspirazione vera, ed è anche un progetto dei popoli europei, però indiscutibilmente fin dalla fine del secondo conflitto mondiale la realtà è stata diversa. In questo mi ricollego al discorso che Stramaccioni affronta sul secondo dopoguerra, in cui accenna ad alcune argomentazioni che, a mio modo di vedere, andavano trattate forse con più determinazione, senza il timore di passare la misura o di non essere “politicamente corretto”. Il fenomeno della cosiddetta “democrazia bloccata” e della carenza di alternanza è un discorso importante, che Stramaccioni approfondisce, e sul quale bisogna portare una certa riflessione. I fattori di politica internazionale determinano, sicuramente dopo il 1945, la linea politica italiana, e questo va detto con chiarezza. Dopo gli accordi internazionali che seguirono la guerra, che noi chiamiamo accordi di Jalta perché ci riferiamo all’incontro del febbraio del 1945 che fissò alcuni criteri sui futuri equilibri mondiali, ma nei quali vanno senz’altro compresi anche quelli di Potsdam, Mosca e Vienna, la divisione del mondo tra area sovietica e area occidentale determina per l’Italia una situazione estremamente chiara: siamo paese di confine. Fino al 1954 Trieste è sotto il controllo britannico e americano; e questo è solo uno degli esempi che dimostrano come l’Italia si dovesse ancorare a un equilibrio predeterminato. Doveva garantire di avere una maggioranza legata all’area occidentale, dal momento che, ove questa maggioranza fosse venuta meno, si sarebbero alterati gli equilibri internazionali, con conseguenze disastrose. Doveva anche fornire una garanzia per l’area sovietica, in quanto paese di confine, e questa garanzia fu data dal partito comunista. In questa chiave, quindi, non è assolutamente incomprensibile il fatto che, in una democrazia bloccata su questo status, l’elemento mobile che ha determinato l’evoluzione della politica italiana del dopoguerra sia stato il partito socialista. In una situazione in cui la maggioranza è definita in un certo modo e l’opposizione in un altro, e ciò rimane immutabile per la salvaguardia degli equilibri internazionali, l’unico elemento mobile, il partito socialista, fu alla base di tutta l’evoluzione della politica interna avvenuta dalla crisi del 1956 alla successiva nascita del centrosinistra, dalla posizione durante il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, alla Presidenza del Consiglio di Bettino Craxi, e così via. Il tutto, però, visto in una cornice costante in cui l’equilibrio internazionale determina la situazione italiana. Io credo che non si possa analizzare la situazione italiana del dopoguerra prescindendo da una visione chiara della sua dipendenza dagli equilibri internazionali. Questo non vuole essere un appunto a Stramaccioni, che parla di questo argomento, ma un invito a tirare sempre tutte le conseguenze della questione inerente i rapporti tra politica estera e politica interna, e affrontarla completamente ed approfonditamente.
Carenza di alternanza e democrazia bloccata. Tutto ciò finisce nel 1989, cade il muro di Berlino e si abbatte la “cortina di ferro”. Una compressione che durava dal 1945 finisce con il provocare un’esplosione 44 anni dopo. Questa esplosione ha varie conseguenze, che sono naturalmente più marcate nei paesi di confine. Nell’area controllata dall’Unione Sovietica, se riguardiamo la carta geografica, i maggiori sconquassi appaiono chiaramente laddove passava una volta il confine: non c’è più la Cecoslovacchia, non c’è più la Jugoslavia, vi è al contrario la riunificazione tedesca, senza poi addentrarci nelle modifiche dei sistemi politici. In Italia l’esplosione ha provocato una situazione tale per cui non ci sono più quelle strutture politiche legate al periodo della compressione. Questo produce ovviamente un assestamento, e, di conseguenza, la nascita dell’esigenza di elaborare un proprio modello. L’Italia deve portarsi ad essere omogenea agli altri paesi. Come? Essere omogenea significa bipolarismo. Esistono laburisti e conservatori, esistono democratici e repubblicani, esistono socialdemocratici e cristiano sociali: anche l’Italia deve avere due schieramenti che possano alternarsi al governo. L’alternanza, a quel punto, è stata voluta, diciamo quasi imposta: doveva avvenire, doveva essere sperimentata, si dovevano costruire sistemi elettorali che creassero questo bipolarismo. E’ fallito? Non è fallito? È stata colpa dei sistemi elettorali adottati? O l’Italia non è bipolare?
Certo c’è un problema di convergenza al centro, lo ricordava Procacci, ma anche Stramaccioni ne fa giustamente un tema ricorrente del suo lavoro. Se la maggioranza che ha portato all’Unità d’Italia si fondava sul “connubio” al centro, allo stesso modo col “trasformismo” noi abbiamo di nuovo accordi al centro. Sostanzialmente, oggi ci possiamo porre, anzi, ci dobbiamo porre questo problema che un tempo non era consentito sollevare: è congeniale all’Italia un modello bipolare o no?
Il fatto è che si può dire che l’Italia tenda ad avere un modello proprio. Ma è questo stesso fatto che provoca dei problemi, perché in molti casi quello che è partito dall’Italia ha avuto una valenza di respiro mondiale, il che rende tutti ancora oggi molto sospettosi sulla nostra creatività politica. L’unico movimento unitario dell’Europa occidentale, l’unico che ha un nome, specifico, citato e non tradotto, è il Risorgimento: un modello nostro, molto studiato. Ci si dimentica troppo spesso che intere delegazioni venivano dai paesi “soggetti” per studiare questo modello. È un modello che ha un rilievo enorme. E, successivamente, non mi vengo a dilungare sul fascismo, o “fascismi”, cioè sui modelli che il fascismo italiano ha generato. È chiaro che il sospetto perdurante in ambito internazionale, è che l’Italia, nel momento in cui esce dai canoni di una fredda osservanza del dettato internazionale, provoca degli squilibri. E questo possiamo chiamarlo “modello”.
La parte più interessante del lavoro di Stramaccioni, scritta con molto equilibrio e compiutezza di argomenti, è quella che riguarda il 1973. Siamo al momento della caduta del governo cileno di Salvador Allende, e Berlinguer scrive i famosi tre articoli da cui escono la teoria, sempre in evoluzione, del “compromesso storico” e l’altra dichiarazione famosa: “La spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre è finita”. Che cosa succede? Succede che si crea un “Eurocomunismo”, altro modello italiano, con delle implicazioni molto chiare, che sfociano nella genesi dei famosi avvenimenti della fine del 1977 e del tragico 1978, il momento cioè in cui si dà vita al governo con la partecipazione del Partito comunista. Nell’opera di Stramaccioni, questo passaggio sarebbe stato forse da mettere ancor più in evidenza, anche se il suo essere un argomento controverso lo rende molto delicato da trattare. È chiaro che l’alleanza tra i maggiori partiti dei due schieramenti violava gli accordi di Jalta, e contro ciò vi è stata una reazione sul piano internazionale, che ha portato poi, con le elezioni successive, ad un rientro dell’Italia nei canoni dei suddetti accordi. Ma anche in quel caso era nato un modello, che aveva avuto anch’esso una sua fortuna internazionale.
Vorrei infine ritornare brevemente all’altro elemento cardine, delineato con molta bravura, del lavoro di Stramaccioni, vale a dire la discrepanza tra paese legale e paese reale. Innanzitutto mi ha colpito notare che, se la storia d’Italia finisce nel 2006, non si ha un’idea chiara del suo inizio. Siamo uno dei pochi Stati che non ha una data di nascita. Si potrebbe pensare al 1861, ma in quella data la numerazione delle legislature non cambia, Vittorio Emanuele è sempre Secondo, con buona pace degli studenti stranieri che non sanno mai quale sia il primo Vittorio Emanuele Re d’Italia: c’è da capirli, perché partiamo già con una particolare numerazione, e non c’è una data effettiva di nascita. La data ufficiale sarebbe quella della norma concernente l’intitolazione dei decreti regi; in quel frangente scompare il Re di Sardegna, che diventa Re d’Italia. L’Italia aveva il problema di non creare una cesura, perché essa avrebbe provocato problemi gravi di riconoscimento dello Stato da parte delle potenze europee. Lo Stato era uguale, le legislature continuavano la loro numerazione, così come il re: “Re Vittorio Emanuele II per grazia di Dio e volontà della Nazione” era Re d’Italia e non più Re di Sardegna. Questa “correzione di bozze” costituiva l’unica variazione.
Lo Stato italiano nasce con un deficit di bilancio pauroso, con una gran parte del paese invitata a non partecipare alla vita pubblica e a riconoscere le istituzioni, con una forte frattura interna, e con le potenze europee, per lo più cattoliche, che si ritenevano pronte ad intervenire, com’era avvenuto in passato, per restaurare l’ordine preesistente. Abbiamo quindi la genesi del brigantaggio, sintomo di una debolezza interna che non era solo economica ma anche sociale, e che si rispecchiava fortemente soprattutto sulla classe dirigente, quella della Destra storica, seppur minoritaria.
Un discorso a parte meriterebbe la parte in cui Stramaccioni affronta la questione della Sinistra storica e il fatto che attribuisca Crispi alla destra. Questa è un po’ una forzatura, secondo me. Vi è storicamente un certo disdegno della sinistra ad avere Crispi nelle proprie fila, però Crispi, come lo stesso Stramaccioni afferma, è un grande riformatore. Certo, se il modello di Depretis è il “trasformismo”, quello di Crispi è “l’autoritarismo”: non passare in Parlamento o passarci il meno possibile, “forzare” sul Parlamento. Ma il livello delle riforme che fece passare Crispi con quel modello è enorme: da quel momento noi abbiamo il Sindaco elettivo, la riforma dell’amministrazione centrale e locale, il codice Zanardelli e la profonda revisione della normativa che riguarda le Opere Pie. Attribuire Crispi, e oltretutto anche Nicotera, alla destra mi sembra un po’ forte. Ciò è probabilmente frutto di una caratterizzazione ideologica posteriore: secondo me, Crispi e Nicotera nascono e rimangono a sinistra. Bisogna vedere poi se abbiamo degli stereotipi riguardanti ciò che la sinistra deve essere, allora da questo punto di vista anche oggi la discussione è aperta.
Infine, l’Autore riprende la questione Paese reale - Paese legale, nel momento cardine dello sforzo compiuto da Giolitti per ricongiungere le due Italie, sforzo che avrebbe tendenza ad avere successo se non arrivasse la crisi del 1914 e del 1915, a cui prima faceva riferimento Procacci. Questa crisi comporta da una parte il controverso ingresso nella Grande Guerra, e dall’altra, a fine guerra, la riproposizione di un distacco tra paese reale e paese legale, ma in questo caso con un paese reale diverso dopo tanti anni di guerra. Nasce la società di massa. Come governare questa società?
Stramaccioni esamina con puntualità la crisi di rappresentanza sociale che incontrano i partiti tradizionali, crisi non risolta ma, al contrario, aggravata dalla prima applicazione in Italia nel 1919 del sistema elettorale proporzionale. E’ proprio il caso di dire che al ragionamento corretto, sotteso all’attuazione della nuova normativa (le diverse realtà sociali “fotografate” in percentuale alla Camera), non corrisponde un esito felice; fallito tale esperimento, non rimase che tentare la carta Mussolini, nell’idea che questi si potesse “bruciare” politicamente per il tempo in cui, un anno e mezzo, le forze politiche tradizionali potessero ritrovare una certa solidità interna e una rinnovata lucidità ideologica per reinterpretare in chiave istituzionale la nuova realtà sociale. Sappiamo come andò a finire, e bisogna sottolineare la puntualità della narrazione offerta da Stramaccioni.
Non sappiamo ancora se l’Autore sia uno storico offerto alla politica o un parlamentare con una singolare preparazione storica. In ambedue i casi non possiamo che congratularci con Alberto Stramaccioni per il volume che ci ha dato, frutto di una solida preparazione di base connessa ad una lunga elaborazione concettuale. E’ un lavoro nuovo e fondato, e come tutti i lavori nuovi e fondati offre spunti di riflessione e di discussione, di consenso e di critica. Mai come adesso ne abbiamo un gran bisogno, e dobbiamo essere grati per averne avuto l’occasione.



Alberto Stramaccioni
Docente di Storia Contemporanea
all’Università per Stranieri di Perugia 


Desidero innanzitutto ringraziare l’Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea e il suo Presidente, il professor Mario Tosti, che insieme all’Università per Stranieri di Perugia hanno voluto organizzare la presentazione del mio volume sulla storia d’Italia, dall’unità nazionale ad oggi.
Ci tengo in particolare a manifestare la mia più sincera riconoscenza all’Università per Stranieri e per essa al Rettore Stefania Giannini e al Preside Roberto Fedi, proprio perché è stato questo Ateneo che mi ha affidato, per oltre dieci anni l’insegnamento di Storia Contemporanea da cui ho tratto sollecitazioni e stimoli utili anche per la realizzazione del libro che stasera presentiamo.
Un grazie naturalmente a tutti i presenti e ai due storici Giuliano Procacci e Romano Ugolini per aver accettato l’invito e per gli apprezzamenti e i rilievi critici che hanno voluto esprimere.
In pochi minuti ritengo possibile rispondere solo ad alcune delle osservazioni avanzate.
Innanzitutto le perplessità sull’uso del termine “modello politico” sollevate dal professor Procacci e tutto ciò che esso comporta, oltre l’aspetto nominalistico. 
Capisco che l’uso del termine “modello” può essere una concessione ad un certo tipo di studi politologici o sociologici e non storici, ma credo che proprio la specificità della vicenda italiana, dalla sua nascita ad oggi, possa legittimare anche questa espressione particolarmente esemplificativa per connotare i caratteri originari e persistenti nella storia d’Italia. E inoltre è giusto rilevare che spesso quando si tratta di scegliere titoli e sottotitoli di un volume si cede un po’ anche alle esigenze editoriali. Il termine ha comunque una sua forza comunicativa anche perché il volume si sforza di ricostruire i caratteri del modello italiano in una comparazione con quelli delle altre nazioni europee e non dell’Europa in quanto aggregato unitario e sovranazionale. E qui concordo con i rilievi che su questo punto ha avanzato il professor Ugolini. Un modello tra gli altri modelli, nel senso che ogni esperienza ha le sue particolarità. In effetti la citazione di Benedetto Croce che non a caso ho voluto collocare all’inizio del volume, dà conto della specificità italiana laddove si sostiene che “…la buona regola vuole che si prenda un popolo per quel che è, come una realtà che in quanto tale è anche razionalità come un organismo che ha la propria legge e armonia…”.
Una seconda questione è stata sollevata in relazione al fatto che cinque dei dieci capitoli del libro sono stati dedicati agli ultimi cinquant’anni e rappresentano, anche nel numero delle pagine, la metà del volume.
Una scelta naturalmente meditata, non consueta nei testi di storia di questo genere, ma determinata soprattutto dal fatto che molti studenti, conoscono poco questo periodo e soprattutto quelli stranieri ne sono particolarmente interessati. E’ stato inoltre lo stesso editore a chiedermi di concludere la ricostruzione storica giungendo fino ai giorni nostri. E poi, lo ricorderà professor Ugolini, fu lei stesso a consigliarmi di narrare e interpretare la storia italiana fino alle vicende più recenti. 
E comunque sono giunto alla ricostruzione della storia politica dell’Italia fino ai nostri giorni, assumendomi anche qualche responsabilità interpretativa, come d’altronde fece il prof. Procacci nel 1969 quando pubblicò la prima edizione della “Storia degli italiani”. Non appaia irriverente questo accostamento tra i due volumi. Anche perché è facile prevedere che la fortuna del mio libro non sarà minimamente paragonabile a quella, particolarmente meritata, del suo. Comunque ricostruire la storia italiana fino ai nostri giorni è stata utile anche perché mi ha consentito di evidenziare la persistenza di alcuni caratteri nazionali nel corso dei decenni e di rafforzare ancora di più la mia tesi interpretativa sul modello italiano.
Una specie di prova del nove della specificità del sistema politico italiano, protrattasi anche dopo la svolta epocale del 1989. E anche dopo la sperimentazione delle nuove leggi elettorali e il passaggio dalla prima alla seconda fase della vita della Repubblica italiana.
Il professor Ugolini ha rilevato un eccessivo riferimento ai dati elettorali, ma è innegabile che dal 1861 ad oggi il mutamento delle leggi elettorali ha segnato in maniera significativa la storia politica italiana nel 1876, nel 1882, nel 1913, nel 1919, nel 1924 e poi dal 1945, fino al 1994 e infine l’ultima del 2005, con il ritorno dal maggioritario al proporzionale. Le leggi elettorali in alcune fasi storiche hanno cambiato l’Italia più di qualunque altro movimento politico. Nel corso degli ultimi centocinquanta anni, sono state a volte la causa e altre l’effetto di grandi trasformazioni sociali oltreché politiche ed istituzionali. Ma sempre un elemento importante. Concordo però con il professor Ugolini che una certa accortezza va usata nell’interpretare gli effetti prodotti dalle leggi elettorali nell’Ottocento. 
Per rispondere ancora al professor Ugolini, vorrei aggiungere che il mio è prevalentemente un testo di storia politica, disciplina in cui i dati e le interpretazioni del voto degli elettori non possono certo essere considerate marginali. Per rimanere sui caratteri della storia politica, concordo con il professor Procacci che questa disciplina è in fondo la spina dorsale della storia tout court o della storia generale, anche se nonostante questo mi sono sforzato di fornire elementi conoscitivi e interpretativi arricchendo e integrando la narrazione con i dati tipici della storia economica e sociale e di quella delle relazioni internazionali, così come d’altronde anche voi avete evidenziato. 
Sull’altra questione relativa alle ragioni della mancanza di alternanza o della democrazia bloccata nel sistema politico italiano posta in modo diverso sia dal professor Procacci che dal professor Ugolini vorrei esprimere alcune mie convinzioni senza vedere solo connotazioni negative nella tanto discussa pratica del trasformismo. Sono d’accordo anch’io che questo metodo di governo sia con Crispi che con Depretis e poi con Giolitti abbia consentito comunque una certa crescita economica e della democrazia in Italia. Il nostro era d’altronde un paese con forti contraddizioni ed uno dei più poveri e analfabeti tra le principali nazioni europee. Ma avrebbe consentito sicuramente una più moderna crescita della democrazia anche una chiara distinzione tra Destra e Sinistra e tra Governo e opposizione pur nelle difficili condizioni italiane.
C’è stato e c’è qualcosa di più oltre ai vincoli strutturali e materiali, che caratterizzano sicuramente la situazione italiana. C’è forse una propensione profonda delle classi dirigenti di Destra e di Sinistra a non assumersi apertamente le proprie responsabilità nel compiere precise e nette scelte politiche e programmatiche affrontandone poi le necessarie conseguenze, anche in termini di perdita del potere e del consenso. In questo senso concordo con il professor Ugolini quando sostiene che è utile precisare sempre l’identità e i caratteri che è venuta assumendo la Destra e la Sinistra nei diversi periodi storici, ma francamente i comportamenti di alcuni personaggi e gruppi politici, specialmente dopo il 1876, sono stati tali da suscitare qualche perplessità sulle loro reali convinzioni politiche, per non definirle di tipo trasformistico proprio perché condizionati da interessi personali, locali o regionali. 
Nell’esperienza repubblicana il tema della democrazia bloccata si è riproposto nel quadro delle contrapposizioni della guerra fredda come è stato ampiamente detto. Ora su questo punto il professor Ugolini ha tra l’altro messo in evidenza il ruolo e le responsabilità del Pci nel determinare l’evoluzione del sistema politico italiano proprio perché condizionato dai legami internazionali a cui con difficoltà, lentezza e contraddizioni si è alla fine sottratto. E’ una valutazione storico-politica fondata, che condivido anche se era tutta la sinistra italiana, almeno fino al 1956, che si riconosceva acriticamente in uno dei due blocchi politico-militari. C’è da aggiungere poi che i condizionamenti internazionali, se valevano per la sinistra, pesavano anche sulla Dc. La “conventio ad escludendum” non può essere un alibi invocato a difesa di una mancata evoluzione del Pci, ma non può nemmeno essere considerato un elemento quasi ininfluente nel caratterizzare il sistema politico italiano. La verità è che il Pci e la sinistra unita e sottolineo unita, non hanno mai avuto un consenso elettorale tale da farle diventare maggioranza politica e parlamentare. E pio con il centrosinistra si sono avute le divisioni tra il Pci e il Psi mentre la Dc rimaneva il partito di maggioranza relativa. La storia non si fa sicuramente con i se, ma se nel 1953 fosse passata la cosiddetta “legge truffa” per il suo forte premio di maggioranza, forse tutto ciò avrebbe consentito una rapida evoluzione del sistema politico italiano secondo il principio dell’alternanza nella logica bipolare. Concordo invece sul fatto che nel “caso italiano” c’è un “caso Psi” che in effetti nel volume non è stato comunque sottovalutato o marginalizzato.
E vengo ora ad un’altra questione. Il professor Procacci ha espresso un serio rilievo critico alla mia interpretazione del fenomeno della resistenza antifascista negando l’esistenza di una qualsiasi guerra civile in Italia. 
Un tema certamente controverso nel dibattito storiografico, ma non credo di aver interpretato in nessun passaggio del volume la resistenza come “una lunga e sanguinosa guerra civile”. Credo invece che, accanto ad una resistenza civile e militare avente il carattere prevalente di liberazione nazionale, ci sia stato anche un conflitto tra italiani fascisti e italiani antifascisti, con una diversa idea di patria e di nazione. Il fatto che questo conflitto abbia sicuramente coinvolto una parte limitata di italiani non riduce il suo rilievo storico e politico che, bisogna ammetterlo, è stato a lungo marginalizzato per affermare una lettura troppo ideologizzata della resistenza, anche se comprensibile, almeno per un certo periodo, proprio perché il suo mito doveva diventare l’elemento fondante dell’era nuova, apertasi con la nascita della Repubblica e l’approvazione della Costituzione. 
E infine si è fatto riferimento al “caso Moro” come elemento simbolo della volontà di congelare l’anomalia italiana. Concordo anch’io con questa interpretazione e vorrei sottolineare però come a questo obiettivo abbiano congiuntamente e oggettivamente lavorato sia il blocco occidentale che quello comunista proprio negli anni della guerra fredda. L’Italia era un paese così importante negli assetti geografici mondiali che, modificarne il suo equilibrio interno significava mettere in discussione la coesistenza pacifica tra le due superpotenze, un “bene” a cui nessuno intendeva rinunciare, sia ad est che ovest. 
Voglio concludere tornando a ringraziare sinceramente tutti. La professoressa Giannini, il professor Fedi e in qualche modo i miei due esaminatori, il professor Procacci e il professor Ugolini, che sono stati sufficientemente comprensivi, nonostante i giusti rilievi e gli elementi di discussione che hanno voluto sollevare. Quando si dice elementi di discussione in realtà si dissente da alcune interpretazioni. Comunque sia, i loro giudizi espressi sul libro, non possono che essere apprezzati proprio perché provengono da due studiosi particolarmente competenti ed autorevoli. Farò tesoro dei loro rilievi critici, ma allo stesso tempo intendo appropriarmi anche dei riconoscimenti positivi che hanno voluto tributarmi. Grazie a tutti.