Venerdì 12 Gennaio 2007
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"L'ultimo libro di Alberto Stramaccioni: "Storia d'Italia dal 1861 al 2006. Un modello politico nell'Europa contemporanea", edito dagli Editori Riuniti, nella recensione di Luciano Violante"     sdfsd

di Luciano Violante

L’ultimo libro di Alberto Stramaccioni (Storia d’Italia, 1861-2006. Istituzioni, economia e società. Un modello politico nell’Europa contemporanea; Roma Editori Riuniti, euro 22) costituisce un’ottima sintesi interpretativa della storia italiana.
L’Autore, anche per la sua specifica competenza professionale ed esperienza politica e parlamentare, sceglie la chiave di lettura istituzionale e, specificamente, quella dei rapporti tra Parlamento e Governo. Attorno a questo binomio ruotano partiti, eletti, elettori, movimenti.
Quest’ottica, che sarebbe di per sé valida in qualsiasi Paese, assume un particolare rilievo nella storia italiana e, in particolare, nella storia della Repubblica. Infatti la storia repubblicana si è svolta, più che attorno al principio della distinzione dei poteri, attorno a quello della compensazione dei poteri.
Al timone del Paese si sono alternati, nei cinquantaquattro anni di vita della Prima Repubblica, in via di fatto, cinque poteri: partiti, governo, parlamento, presidente della Repubblica e magistratura, alcuni dotati di responsabilità politica ed altri privi di questo tipo di responsabilità, come il Presidente della Repubblica e la magistratura. In alcune fasi, inoltre, quando il sistema politico non è apparso in condizioni di decidere, i nodi più gravi sono stati sciolti direttamente dal popolo attraverso il referendum. Così è stato per l’alternativa monarchia-repubblica, dopo la Liberazione, nel 1946, che il popolo, chiamato a decidere attraverso uno speciale referendum, sciolse a favore della repubblica. Nel 1974 furono sempre i cittadini a sciogliere l’alternativa divorzio si-divorzio no, a favore del divorzio. La questione, per i riflessi sulla pace religiosa, era ritenuta talmente grave e politicamente insolubile, da spingere tutte le forze politiche ad un’intesa in base alla quale vennero approvate prima la legge ordinaria sulla disciplina del referendum, poi la legge che introduceva il divorzio, proprio per consentire il referendum su questa legge. Il referendum si tenne nel maggio 1974 ed i favorevoli alla legge prevalsero con circa il 60% dei voti. Sempre attraverso referendum, nel 1991 e nel 1993, venne cambiato il sistema elettorale, da proporzionale in maggioritario, dopo che le maggioranze politiche del tempo avevano di fatto impedito qualsiasi riforma.
Il primato nella direzione politica è appartenuto tradizionalmente, e questo particolare emerge con chiarezza dallo studio di Stramaccioni, ai partiti e al Governo. Ma quando questi poteri non riuscivano ad esprimere una capacità di direzione politica ne sono subentrati altri. Come se fosse sostenuto da un sistema di sospensioni cardaniche, il paese ha reagito agli scossoni rimettendosi costantemente in equilibrio; ma proprio questa capacità lo ha tranquillizzato, impedendogli sinora di dotarsi delle riforme necessarie per evitare quegli scossoni. Le sue virtù hanno prolungato la vita dei suoi vizi.
La politica italiana, negli anni della Prima Repubblica, più che dall’instabilità, è caratterizzata contemporaneamente da un horror vacui e da un horror pieni: dalla tendenza ad evitare che la crisi di un potere provochi la crisi del Paese e, contemporaneamente, dalla tendenza ad evitare l’eccessivo rafforzamento di uno dei poteri a scapito degli altri.
Chi ha occupato il centro della scena politica ha determinato in quello specifico momento le caratteristiche della democrazia. Esasperando alcune caratteristiche delle diverse fasi e semplificandone altre, al fine di far meglio comprendere il funzionamento del meccanismo compensativo tra i poteri, si potrebbe dire che l’Italia è stata volta a volta una “democrazia dei partiti”, una “democrazia presidenziale”, una “democrazia oligarchica”, una “democrazia giudiziaria”, una “democrazia parlamentare”, una “democrazia plebiscitaria”, a seconda del potere che occupava in quel determinato momento il centro del sistema politico.
E’ certamente difficile indicare la data precisa del passaggio da un’esperienza all’altra perché le fasi non sono scandite da atti formali e sono perciò ricostruibili solo a posteriori. A volte, la successione non è stata caratterizzata da un visibile passaggio di consegne, di modo che i poteri che hanno occupato il centro del sistema qualche volta sono stati più di uno. Nella prima metà degli anni Novanta, ad esempio, sono stati decisivi tanto la magistratura quanto il Presidente della Repubblica Scalfaro.
Con questi limiti, l’Italia è stata una “democrazia dei partiti” all’indomani della Liberazione dal nazifascismo. I partiti a quel tempo erano credibili per aver liberato il Paese dalla dittatura fascista, aver realizzato la Repubblica e approvato la nuova Costituzione. Un ulteriore fattore di legittimazione era costituito dal fatto che i due schieramenti politici, quello filo Usa e quello filosovietico, facevano riferimento diretto alle due grandi potenze che allora si dividevano le sfere di influenza nel mondo. 
E’ stata una “democrazia presidenziale” a partire dalla seconda metà del 1992, quando nella crisi dei partiti determinata dai processi per le corruzioni politiche, i processi di Mani pulite, e dalla fine del bipolarismo internazionale, emerse il ruolo decisivo del presidente della Repubblica Scalfaro.
E’ stata una “democrazia oligarchica” alla fine degli anni Ottanta, quando il giornalismo politico creò la sigla Caf le iniziali di Craxi, Andreotti, Forlani, per indicare gli uomini politici che avevano assunto nelle proprie mani il massimo di potere.
E’ stata una “democrazia giudiziaria”, in modo diverso, negli anni Settanta, gli anni del terrorismo, e nei primi anni Novanta, gli anni dei grandi attentati della mafia ai magistrati, dei processi per le collusioni tra mafia e politica e della scoperta giudiziaria della corruzione politica, i cosiddetti processi di mani pulite. Nel primo periodo la magistratura agì nella lotta contro il terrorismo, all’interno del sistema politico che aveva ad essa delegato queste funzioni, come protagonista diretto, suggeritore di strategie politiche, punto di orientamento dell’opinione pubblica. Nel secondo periodo, invece, la magistratura ebbe contro una parte considerevole del sistema politico, dato che quel tipo di processi ne chiamavano in causa alcune parti consistenti.
E’ stata una “democrazia parlamentare” nella seconda metà degli anni Novanta, quando il Parlamento ha fatto e disfatto i governi. E’ stata una “democrazia plebiscitaria” quando i nodi politici sono stati sciolti direttamente dai cittadini con il referendum.
Questo sistema di compensazioni è il frutto delle condizioni politiche interne e soprattutto internazionali che impedivano 1’ alternanza al governo del Paese.
Un Paese non cerca compensazioni alle crisi dei governi, quando è possibile l’alternanza.
Quando invece, per ragioni interne o internazionali, l’alternanza o è impossibile o è altamente rischiosa, come è accaduto in Italia, quel sistema si affanna a costruire meccanismi di bilanciamento che per un verso evitino che chi vince abbia i pieni poteri e per altro evitino il ricambio in caso di crisi di governo.
Negli anni della Prima Repubblica, come documentano alcuni capitoli del libro, i due maggiori partiti, la Dc ed il Pci, pur concordando sui caratteri di fondo del sistema politico italiano si sono guardati con rispettosa diffidenza in quanto portatori di opposte culture, opposti riferimenti internazionali, opposti sistemi di valori.
Ma DC e PCI, pur essendo stati portatori di contrapposte concezioni ideali avevano partecipato insieme alle vicende costitutive del sistema politico democratico: la lotta di liberazione dal nazifascismo, l’approvazione della Costituzione, il varo delle istituzioni repubblicane dopo il referendum popolare del 2 giugno 1946 che pose fine all’esperienza monarchica e la stessa ricostruzione post-bellica. Questa storia comune ha reso possibile, pur tra conflitti e contrapposizioni, la individuazione di valori condivisi, quelli della Costituzione, l’adozione di comportamenti parlamentari e politici ispirati in genere al rispetto reciproco, il dialogo anche nei momenti di massima tensione.
Oggi invece i fronti contrapposti, centro sinistra e centro destra, non hanno alcuna esperienza comune nel loro Dna; manca la condivisione di regole e metodi nel confronto politico e parlamentare. Questa carenza da vita ad una rissosità senza confini che rende difficile il lavoro parlamentare ed espone il Paese al rischio dello smarrimento, della perdita di identità civile Nella maggioranza prevale l’idea che l’opposizione sia un intralcio e nell’opposizione prevale l’idea che la maggioranza sia un pericolo. Manca il rispetto reciproco, e non è cosa da poco perché il rispetto tra le forze politiche è un fattore necessario, anche se non sufficiente, per la dignità internazionale del Paese.
Le riflessioni di Stramaccioni sull’ultimo governo della Prima Repubblica, presieduto da Bettino Craxi, ci aiutano ad intravedere una possibile via d’uscita a questa contrapposizione frontale. Si tratta di recuperare al sistema maggioritario la fondamentale, e forse unica, virtù del sistema proporzionale: il senso del limite.
Occorre sottrarre al dominio della maggioranza, qualunque essa sia, le questioni relative alle garanzie costituzionali ed elettorali dei parlamentari, per evitare che la maggioranza sia arbitra, come oggi avviene, delle libertà e dei diritti elettorali dei parlamentari dell’opposizione. Sui caratteri fondamentali del sistema politico ed istituzionale si deve deliberare solo dopo un confronto con l’opposizione, per evitare che ad ogni cambio di maggioranza si metta mano alle regole fondamentali. Il dialogo tra le forze politiche è il connotato essenziale di un sistema politico maturo. Peraltro oggi da noi la diffidenza reciproca è tale che appena si affaccia questo problema emergono i custodi dell’integralismo politico, quelli per i quali ogni dialogo è consociazione. In realtà la consociazione, che si è avuta tra Dc e Pci nella fase finale degli anni Settanta, è altra cosa; la consociazione non è il dialogo, è la predeterminazione in sedi non trasparenti e non controllabili dall’opinione pubblica dei contenuti specifici delle deliberazioni parlamentari. Il rifiuto del dialogo maschera, in realtà, debolezze strategiche e calcoli egoistici.
La capacità di analisi e di sintesi di cui Stramaccioni si è avvalso nella stesura del volume gli ha consentito di affrontare con padronanza anche molte questioni politiche ed istituzioniali, ancora controverse, emerse negli anni a noi più vicini.

 

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