"Alfio, una biografia per ricordare un'epoca"
"Ad un'anno dalla morte un ricordo della figura del Senatore Alfio Caponi"
di Alberto Stramaccioni
La biografia dedicata da un figlio al proprio padre è spesso una particolare opera editoriale, tanto più se poi padre e figlio sono impegnati nell’attività politica. Tuttavia Leonardo Caponi ha ricostruito la vita politica e quella privata di suo padre con una certa sobrietà, narrando le tante vicende vissute nel corso della sua esistenza lunga e serena durata quasi novant’anni lungo tutto il ventesimo secolo.
Questa pubblicazione, articolata in ventiquattro agili episodi, aggiunge ancora un tassello a quel mosaico attraverso il quale sarà sempre più facile ricomporre l’insieme della storia politica dei comunisti umbri. Anni addietro Giancarlo Pajetta sottolineava come nella nostra regione rischiava di prevalere una “cultura orale” dei comunisti umbri più che una riflessione scritta e documentata sulla propria identità, progettualità e storia.
Negli ultimi dieci o quindici anni questo limite può dirsi in parte colmato dai diversi lavori di ricerca compiuti da storici professionisti, ma anche e soprattutto dalle pubblicazioni dei vari dirigenti come Raffaele Rossi, Claudio Carnieri, Giuseppe Pannacci, Francesco Alunni Pierucci, Alvaro Valsenti, Anna Lizzi Custodi, Renato Luigetti mentre sono in preparazione i lavori di Settimio Gambuli e Quinto Pecorari. Inoltre hanno visto la luce varie biografie su diversi dirigenti del Pci scomparsi, tra i quali quelle di Ludovico Maschiella, Pietro Conti, Riccardo Tenerini, Armando Fedeli, Pietro Farini, mentre Enzo Coli negli ultimi anni ha raccolto per “Cronache Umbre” le testimonianze di molti anziani dirigenti della sinistra sulla loro lunga attività politica, amministrativa e sindacale.
Il libro di Leonardo Caponi conferma in sostanza quella che era la caratteristica e il tratto principale che accomunava tanti dirigenti comunisti di quella generazione , nata e cresciuta durante il fascismo, per poi diventare nell’immediato dopoguerra la classe dirigente del “partito nuovo” di Palmiro Togliatti.
Alfio Caponi è stato dunque uno di quei dirigenti che ha contribuito a costruire l’identità e l’organizzazione del Pci, molto diversa da quella dei comunisti degli altri paesi europei. Per Caponi, come per molti altri, negli anni della guerra fredda e dello scontro Usa – Urss, un progetto anticapitalista e rivoluzionario di stampo leninista e stalinista era la base ideologica che motivava la “via italiana al socialismo” e cioè una politica e una pratica di tipo riformistico, anche se il termine veniva sprezzatamente rifiutato quale indice di “una deriva socialdemocratica” del partito. In sostanza alla predicazione su una rivoluzione possibile, ma non certo immediata, si legava un’attività politico-sindacale quotidiana al fianco dei contadini, dei mezzadri, degli operai, dei minatori, delle tabacchine, che per Alfio Caponi significava operare concretamente per i diritti di libertà e di giustizia sociale nella particolare realtà italiana governata dalla Dc e inserita nel blocco atlantico.
Il forte legame ideologico con Mosca e con l’Internazionale Comunista, ha caratterizzato le sue valutazioni politiche fino alla fine dell’Urss, ma Alfio Caponi è stato anche un dirigente che ha conservato una sua particolare originalità politica all’interno del gruppo dirigente più ristretto dei comunisti umbri. Uomo di prevalente formazione ed esperienza sindacale si è caratterizzato nel corso di tutta la sua attività politica per la particolare capacità di interpretare gli umori e gli orientamenti del movimento dei lavoratori e della società per poi riportarle all’interno degli organismi politici anche più ristretti del partito e delle istituzioni. Per questo è stato un “dirigente di collegamento” tra la società e i lavoratori da una parte e il partito e le istituzioni dall’altra e perciò stesso particolarmente prezioso nel periodo delle grandi lotte sociali degli anni cinquanta e sessanta.
Forse anche per questo Caponi, come molti altri ex sindacalisti Cgil, non si è mai integrato pienamente nel gruppo dirigente più ristretto del Pci e non ha partecipato direttamente o con particolare accanimento alle più cruente lotte di potere interne, rimanendo, forse anche per questo, uno dei dirigenti più popolari.
Ma se Caponi era particolarmente legato al movimento contadino e operaio era altrettanto diffidente verso quei nuovi movimenti politici e sociali degli anni settanta e ottanta, studenteschi, intellettuali, giovanili, femminili che si battevano per i diritti civili e per un più generale rinnovamento della società italiana.
Purtuttavia l’insieme di queste sue caratteristiche politiche e sindacali gli hanno poi consentito, durante la sua lunga attività parlamentare alla Camera e al Senato per tre legislature e quella amministrativa al Comune di Perugia e alla Comunità Montana del Trasimeno di operare con grande pragmatismo nell’interesse dei cittadini fino ad essere identificato come il fautore di una qualche “intesa consociativa” con la tanto vituperata Dc, partito di Governo a Roma ma all’opposizione in Umbria.
Il libro di Leonardo non indugia più di tanto sulle posizioni politiche assunte dal padre negli anni ottanta e novanta soprattutto sui temi di politica internazionale. Ma resta noto il suo dissenso con il gruppo dirigente nazionale e regionale del Pci sui rapporti con Mosca e il Pcus, ancor prima dell’era Gorbaciov, ai tempi dell’invasione della Cecoslovacchia e della crisi in Polonia, fino alla decisione di condividere il famoso “strappo” che lo ha portato dieci anni dopo, con Armando Cossutta, alla nascita del Partito della Rifondazione Comunista.
Come ha opportunamente rilevato Leonardo Caponi in fondo la storia politica di suo padre si è conclusa con la fine del Pci, dopo il crollo del Muro di Berlino, la fine dell’Urss eil cambio del nome e del simbolo, ma non a caso nell’ultima intervista concessa ad Enzo Coli per “Cronache Umbre”, richiamava tutte le componenti della sinistra all’unità e a superare le divisioni per battere la nuova destra berlusconiana.
Era e rimaneva un dirigente del Pci con una forte impronta unitaria e questa sua caratteristica gli era d’altronde indispensabile per meglio rappresentare e difendere quel mondo dei lavoratori a cui è rimasto sempre fedele. Coerente com’era a quei valori di giovane operaio dodicenne che, umiliato da uno schiaffo del padrone, si ribellò poi sempre alla prepotenza e allo sfruttamento.