Venerdì 18 Settembre 2020
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Storia delle classi dirigenti, un filone storiografico per una nuova storia politica

di Alberto Stramaccioni

 

Da qualche tempo si susseguono pubblicazioni e dibattiti sulla crisi della storiografia, e in particolare sulla sua perdita di rilevanza pubblica, in tutto il mondo occidentale, pur di fronte a una crescente diffusione di “conoscenze storiche” veicolate come non mai da film, romanzi, fiction, canali televisivi e altro ancora. Alcuni storici, di fronte a questa situazione, invitano a riflettere sul tipo di storia che si è diffusa negli ultimi decenni, secondo loro prevalentemente concentrata a privilegiare la breve durata o la microstoria, marginalizzando così gli studi sul quadro interpretativo di lungo periodo. Questo orientamento storiografico avrebbe portato a una progressiva irrilevanza di una disciplina scientifica nella soluzione dei problemi posti dalla società contemporanea. E per questa via le ultime generazioni non avrebbero più memoria del passato, incapaci quindi di orientarsi nei nostri tempi, agevolando in tal modo il populismo e l’autoritarismo così come si vanno manifestando in Italia e in Europa. Altri storici mettono in discussione questo compito della storia, accusata di anacronismo e vista come magistra vitae, sostenendo che il lavoro dello storico è quello di ricostruire il passato senza avere l’occhio rivolto al futuro e tantomeno può prestarsi a un uso politico della conoscenza storica nel presente. Si aggiunge, inoltre, che non è poi così rilevante se gli studi storici si occupino di ricostruire la successione degli eventi nel breve o nel lungo periodo, quanto invece risultino capaci di individuare nuovi criteri di indagine fondati sull’acquisizione di nuove fonti e metodologie, valorizzando tutti i contributi che possono provenire dall’ampio campo delle scienze sociali, con forme di reciproca comprensione, superando vecchie rigidità scientifico-disciplinari per rispondere alle nuove sfide identitarie imposte dalla globalizzazione.

Si sarebbe comunque giunti a quella che oggi viene chiamata una crisi di identità della storiografia, avvertita in Italia da qualche decennio, con l’avvio di una riflessione sui limiti innanzitutto della storia politica così come si era andata configurando, almeno dal secondo dopoguerra. Peraltro, quest’ambito storico-disciplinare, qual è quello della storia politica, era da sempre considerato la spina dorsale della storia tout-court, proprio perché la sua ricostruzione condotta prevalentemente nella lunga durata, conferiva rilevanza pubblica alla storiografia, potere agli storici, formava ed “educava” le élites culturali e politiche, legittimava molto spesso una parte consistente dei ceti sociali nelle loro funzioni di comando o di contrasto al potere dominante. Ma le crisi ideologiche, i mutamenti sociali e le evoluzioni culturali che si sono avviati a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, hanno posto domande nuove sul come ricostruire la storia in generale e su quale caratterizzazione metodologica e tematica dare alla storia politica in particolare.

D’altronde, un certo tipo di storia politica aveva una sua ragion d’essere finché al comando di un Paese o di una comunità dominavano solo alcune oligarchie, ma con l’avvento della società di massa, a partire dai primi anni del Novecento, tante e diverse sono state le componenti che hanno svolto funzioni dirigenti o di comando nella società. Ed essersi limitati per lungo tempo a identificare la storia politica con la sola ricostruzione delle attività di politica interna e di politica estera espresse dal governo centrale o dal Parlamento o dai conflitti tra i partiti e tra questi e i movimenti sociali ha sicuramente costituito un limite nella comprensione più generale del ruolo svolto dai tanti e diversi protagonisti dell’agire politico in una società complessa perché articolata in molteplici livelli e spazi di potere anche e soprattutto in conflitto tra loro.

Una via possibile, quindi, per superare i limiti metodologici e tematici della tradizionale storia politica può essere rappresentata dall’approfondimento delle ricerche che da qualche tempo si sono sviluppate in Europa e in Italia sulla storia delle classi dirigenti nel loro insieme attive nel campo politico-istituzionale, economico-imprenditoriale, culturale e sociale, professionale, religioso, e in molti altri sistemi di potere territoriali, nazionali e internazionali. Può essere questo un approdo a cui peraltro tendono diversi studiosi ben consapevoli che il confronto storiografico negli ultimi decenni ha aperto nuovi orizzonti per una diversa storia politica in cui la storia delle classi dirigenti potrebbe offrire particolari metodologie ricostruttive per una nuova prospettiva della ricerca.

 

1. L’evoluzione del dibattito storiografico

Il dibattito storiografico più recente non poteva che risentire del confronto tra studiosi sviluppatosi già nei decenni trascorsi su come intendere la nuova storia politica, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, per l’avanzare del sistema dei partiti, delle organizzazioni di massa e di una società urbano-industriale in rapida espansione. Ma pur di fronte a questi profondi cambiamenti, ancora negli anni Settanta gran parte della storiografia continua a occuparsi di tematiche settoriali e con le tradizionali metodologie, mentre lo studio delle trasformazioni sociali, culturali e tecnico-scientifiche in atto vengono prevalentemente affrontate da economisti, sociologi, psicologi e antropologi.

In particolare, prevale la produzione storiografica italiana ispirata da Benedetto Croce a partire dal volume Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, del 1921, la quale definisce il suo storicismo come un metodo per la conoscenza storica frutto di un bisogno pratico che conferisce a ogni storia il carattere di storia contemporanea, espressione di una “situazione reale”. L’accento viene quindi posto più sulla interpretazione storico-politica che sulla complessa e approfondita narrazione e ricostruzione dei dati e dei fatti storici. Prende corpo una filosofia della storia, condivisa sia dal fronte idealista sia da quello marxista, con la quale dovrà confrontarsi, e in parte riconoscersi, una generazione di studiosi come Federico Chabod, Gioacchino Volpe, Adolfo Omodeo, Gino Luzzatto, Arnaldo Momigliano, Ernesto Sestan, Delio Cantimori e altri e intellettuali quali Giovanni Gentile e Antonio Gramsci e poi nel secondo dopoguerra storici come Walter Maturi, Franco Venturi, Luigi Salvatorelli, fino a Rosario Romeo e Renzo De Felice, ognuno naturalmente con le sue specificità.

Ad avviare una svolta negli studi storici europei, criticando quelli espressi dalla storiografia cosiddetta positivistica ben presente in Italia, è oramai da più parti accettata l’idea che sia stata la nascita, nel 1929, della rivista francese «Annales d’histoire économique et sociale» promossa da Marc Bloch e Lucien Febvre. Gli studiosi delle «Annales» cercano di ampliare l’orizzonte della storia considerando che «l’oggetto della storia è per sua natura l’uomo» e quindi gli storici devono lavorare con i geografi, i sociologi, gli psicologi, gli economisti, gli antropologi e gli altri studiosi di scienze sociali. Ai due fondatori si aggiunge Fernand Braudel, che nel 1958 pubblica sulle «Annales» un articolo (Histoire et sciences sociales. La longue durée) con il quale, prendendo in considerazione anche la linguistica di Ferdinand de Saussurre, rivendica la possibilità e l’importanza di un uso storiografico della categoria di struttura intesa come quel modello ricostruttivo che va oltre la storia degli avvenimenti per individuare elementi che permangono per lunghi o lunghissimi periodi, imponendosi a singoli uomini e a intere generazioni, scavalcando la loro stessa volontà.

Queste nuove tendenze della storiografia francese si diffondono in Europa e anche in Italia negli ambienti accademici, pur con una certa gradualità. Si sviluppano comunque nuovi studi di storia economica, di storia sociale e urbana che cercano di dare nuove letture alla storia d’Italia, nascono diverse riviste animate anche da storici marxisti italiani e inglesi le quali analizzano le origini del capitalismo e della rivoluzione industriale assieme alla storia del movimento operaio.

Orizzonti e metodi della ricerca storica sembrano volgere verso il cambiamento alla fine degli anni Cinquanta con due convegni: nel 1955 si tiene a Roma il X congresso internazionale di scienze storiche e nel 1959 a Milano e a Stresa il IV dei sociologi, che raccolgono le sollecitazioni europee e internazionali a innovare gli obiettivi della ricerca storica e sociologica.

Negli anni Settanta si comincia a dare spazio all’insegnamento della storia contemporanea, si avviano nuovi corsi di laurea universitari mentre le case editrici Einaudi e Utet danno vita a due diverse “storie d’Italia” dal carattere interdisciplinare, dove si avverte anche l’influenza delle «Annales». In questo stesso periodo nascono ancora nuove riviste e si producono studi nei quali prevale una visione interdisciplinare della storia sociale che si muove sugli orientamenti di uno studioso come Eric J. Hobsbawn, il quale integra lo studio della demografia, delle classi e dei gruppi sociali, con la storia della mentalità, della cultura della trasformazione della società e dell’azione dei movimenti di massa. In questo contesto si pubblicano anche studi sulla storia delle città con la collaborazione tra studiosi di discipline diverse; sull’industrializzazione; sul mondo agricolo e la formazione della classe operaia; sulla storia della famiglia e le relazioni con la comunità; fino alle ricerche su taylorismo e classe operaia nell’industria italiana. L’insieme di questi studi tendono, non senza difficoltà, a una diversa configurazione del rapporto tra storia sociale e storia politica, due ambiti della ricerca considerati da molti studiosi spesso in difesa delle reciproche autonomie.

Inoltre, sull’onda della nuova storiografia francese, nel 1966 nasce la rivista «Quaderni storici», che sollecita studi di microstoria, storia locale e storia orale come critica alla vecchia metodologia storicistica.

Naturalmente non tutti gli storici accademici o gli studiosi di storia contemporanea si riconoscono in questo tipo di obiettivi e metodologie della nuova ricerca e alcuni di loro preferiscono polemizzare accusando altri di fare un uso politico della storia oltre il pur legittimo “uso pubblico”. Tuttavia, al di là delle polemiche, si vanno affermando diverse correnti storiografiche che si muovono verso una nuova collaborazione tra la storia e le scienze sociali.

Con questo orizzonte, soprattutto in Italia, dagli anni Settanta, si compiono ricerche e studi affrontando la tematica sul consenso o meno al regime fascista, sul ruolo, la funzione e la composizione dei partiti politici nell’età repubblicana e sulla storia istituzionale e costituzionale come storia politico-sociale.

Il dibattito sul fascismo raggiunse nel 1975, con l’Intervista sul fascismo di Renzo De Felice uno dei suoi momenti più polemici proprio perché lo storico considerava come base di massa del movimento fascista i “ceti medi emergenti” composti da una piccola borghesia di recente formazione costituita da piccoli imprenditori, impiegati di livello minore, esclusi dal ceto dirigente liberale. Al contrario, altri studiosi di matrice marxista ritenevano il fascismo espressione di «ceti sommersi in disfacimento» e consideravano le tesi di De Felice addirittura una riabilitazione del regime dittatoriale tendente a contrastare il cosiddetto “paradigma antifascista” divenuto dominante nel secondo dopoguerra. De Felice, tuttavia, aggiornava gli studi sul fascismo con nuove metodologie nella ricerca e utilizzava gli strumenti delle scienze sociali nonché gli studi di politologia internazionale, raccogliendo i contributi di Talmon, e di Mosse in particolare, ed evidenziava le caratteristiche culturali e sociali del fascismo a confronto con nazismo e bolscevismo.

Negli stessi anni Settanta, per motivi prevalentemente ideologici, non manca una certa contrapposizione tra “storia politica” e “storia sociale”, dove la prima, per i critici, doveva registrare quasi con realismo cinico le varie sfide per il potere nelle élites istituzionali, mentre la seconda era invece chiamata a evidenziare le lotte e le aspirazioni dei vari movimenti sociali, dai caratteri spesso anti-istituzionali. Una contrapposizione che appariva inadeguata a capire i complessi problemi dello sviluppo della democrazia, in Italia come in Europa, mentre, secondo Pietro Scoppola, con il suo La Repubblica dei partiti, questa contrapposizione poteva essere superata attraverso un più collaborativo rapporto tra studiosi di storia, diritto e scienze sociali, richiamandosi per questo al contributo dato prima da autori come Gaetano Mosca, Roberto Michels e Vilfredo Pareto e poi Ralf Dahrendorf, Giovanni Sartori, Norberto Bobbio, Roberto Dahl e John Rawls. Le loro teorie sulla classe politica, che potevano essere utilizzate sia in senso democratico sia antidemocratico, sarebbero state comunque destinate a riattivare un’attenzione ai temi istituzionali, agli studi giuridici e politici, a una loro integrazione e a una più generale storia dell’organizzazione del potere in Italia.

In questo quadro la scienza della politica negli anni Ottanta e Novanta ha dato un significativo contributo alla storia del sistema politico e dei partiti popolari e di massa e del movimento operaio e cattolico, ricomponendo la dimensione istituzionale e quella sociale della storia politica.

È in questo contesto che si estendono anche gli studi di storia costituzionale e di storia istituzionale e amministrativa e dello Stato nel suo insieme come dimostrano gli studi di Raffaele Romanelli, a partire da quelli sull’Italia liberale. Le diverse linee di ricerca, se inizialmente si occupano di commentare e interpretare la nuova Costituzione, poi affrontano studi di storia parlamentare e studi comparati di storia costituzionale così come studi di storia elettorale. Sia pure in ritardo rispetto agli altri Paesi europei, sono apparsi studi sulla storia della pubblica amministrazione realizzati prima da giuristi, come Massimo Severo Giannini, e poi da storici, come Guido Melis, con diversi punti di vista, e non sono mancate opere di sintesi come quelle di Sabino Cassese.

L’impulso a nuovi studi sulla “storia costituzionale”, che supera comunque una dimensione strettamente giuridica, oggetto di diverse interpretazioni, viene in Italia dall’attività di studiosi come Pierangelo Schiera, che ha introdotto correnti e metodi della storiografia e della politologia tedesca, traducendo le opere di Otto Hintze, Otto Brunner, Carl Schmitt, Werner Conze, Reihnart Koselleck. Questi autori ricostruiscono i caratteri dello Stato costituzionale nella prospettiva della storia del pensiero politico, concepita come storia “politico-costituzionale”, andando oltre visioni unilaterali derivanti dal modello rivoluzionario francese.

 

2. Storia politica e storia delle classi dirigenti

Se dalla ricognizione sull’evoluzione della storiografia politica degli ultimi decenni si passa a una sua riconsiderazione tematica e interpretativa, emerge la tendenza, alimentata da una parte rilevante di storici e di politologi, a occuparsi prevalentemente dell’azione e della funzione svolta dalle classi dirigenti, nel loro insieme complesso e articolato, con un nuovo approccio metodologico.

In particolare, nel 1982, è ancora la rivista «Quaderni storici» ad avviare uno studio sul tema delle borghesie in età liberale che si va a collocare tra la storia politico-istituzionale, la storia sociale e la storia economica, mentre qualche anno dopo sullo stesso tema viene stampato un volume di storia comparata (tra le varie esperienze europee) riguardante un’importante ricerca nata in Germania per l’iniziativa di Jurgen Kocka. E in questi anni è proprio uno studio di Arno J. Mayer a dare un ulteriore contributo sul tema dell’organizzazione del potere nell’Ottocento, delineando l’identità di una classe dirigente europea nelle sue connotazioni economiche, sociali e culturali.

Questi studi sollecitano in Italia una riflessione che, a partire dagli anni Ottanta, affronta i limiti definiti ora cronachistici, ora ideologici, della storia sociale e soprattutto di alcuni filoni di studi. È in particolare la storia politica a venire messa in discussione, soprattutto nei suoi studi sul movimento operaio e sulle organizzazioni e i partiti politici della sinistra che, anche dopo la crisi del 1955-56, avevano continuato a essere uno dei settori di ricerca privilegiati. In più, negli anni Settanta, sull’onda dei crescenti movimenti di massa della sinistra operaia e studentesca, si erano pubblicati moltissimi studi e ricerche segnate esclusivamente dalla valorizzazione dell’ideologia antifascista-resistenziale come mito fondante dell’Italia repubblicana marginalizzando o addirittura ignorando il contributo dato dalle altre componenti democratiche e moderate al processo di liberazione nazionale (oltre che delle forze alleate) nel corso della seconda guerra mondiale.

Più in generale, la riflessione critica avviata negli anni Ottanta porta a realizzare una storia politica progressivamente diversa da quella del passato che intende valorizzare nuovi filoni come quelli della storia istituzionale e amministrativa, economica e imprenditoriale, bancaria e finanziaria, accademica e religiosa e di alcune componenti delle classi dirigenti fino ad allora marginalizzate.

Sull’onda di questi studi e dibattiti, nel 1989, a Trento, alcuni storici provenienti da esperienze diverse di storia sociale promuovono un’associazione nazionale che si trasformerà l’anno successivo nella Società per lo studio della storia contemporanea (Sissco) – nel cui statuto, tra i primi obiettivi metodologici, vengono messi in evidenza i rapporti tra storia e scienze sociali e il comparativismo come strumento di analisi e interpretazione con il fine di promuovere una circolazione di studi in grado di sprovincializzare e ridurre il tasso di cronachismo e di ideologismo delle storie politiche nazionali. In coerenza con questa impostazione la Sissco nel 1994 organizza un convegno dal titolo “Classi dirigenti nella storia dell’Italia unita”, chiamando a discutere alcuni studiosi europei che puntano a valorizzare i loro studi sui modelli nazionali e su quelli comparativi.

Da quest’insieme di esperienze e dibattiti sviluppatisi soprattutto a partire dagli anni Ottanta è venuto l’impulso a concepire una storia delle classi dirigenti come un aggregato e un contenitore di studi settoriali, micro e macro, locali e nazionali, in una logica comparativa internazionale che sembra aver trovato spazio nelle collane editoriali dedicate alla storia delle città e a quella della storia delle regioni.

Inoltre, per molti studiosi appare utile la collaborazione tra la storia e le scienze sociali nel loro insieme, e questi stessi riconoscono per esempio, anche alla prosopografia, oltreché ai dizionari biografici, lo status di genere storiografico. È questo ancora un tema controverso e, pur tuttavia, la biografia come genere storiografico, così come le autobiografie o certa memorialistica, appaiono particolarmente utili in tutti quegli studi che trovano nella dimensione territoriale il luogo della ricerca e dove alcune fonti sono più facilmente verificabili.

Più in generale, al di là degli studi sulle élites dirigenti dalla polis greca a quella romana, da quella medievale a quella del Cinquecento e del Seicento sono le ricerche sulle rivoluzioni buone e cattive e in particolare sulla funzione svolta dalla nascente borghesia urbana a cambiare il segno delle indagini storiche. D’altronde, nel corso dell’Ottocento, con il diffondersi della rivoluzione industriale nei principali paesi europei, nasce e si consolida una nuova classe sociale come la borghesia imprenditoriale, terriera, professionale, militare, che diventa la spina dorsale della nuova élites dirigente e sulla quale molti storici sviluppano un particolare filone della ricerca.

D’altronde, l’Ottocento da diversi studiosi viene considerato il secolo dell’affermazione della borghesia che esprime una nuova organizzazione del potere attraverso una propria articolazione settoriale (per professioni e competenze) e territoriale (per aree di influenza interne e internazionali) che non ne fa comunque una classe sociale monolitica od omogenea. In Prussia prevale una borghesia militare, in Francia quella delle libere professioni e della burocrazia statale, in Inghilterra la gentry, ovvero la piccola nobiltà diffusa, negli Stati preunitari italiani la borghesia terriera e cittadina. Da molti studi emerge che, nonostante l’esistenza anche tra i borghesi di tendenze aristocratiche e antindustriali, la borghesia nel suo insieme assume una connotazione modernizzatrice sia dei sistemi politico-istituzionali sia degli assetti economico-sociali.

La crescente funzione dirigente, per tutto l’Ottocento, di questo ceto sociale, alimenta un’analisi storica e un’elaborazione teorica anche in Italia sul rapporto tra borghesia e classi dirigenti così come d’altronde avviene nei principali paesi occidentali.

Gli innumerevoli studi sulla funzione della borghesia nella società industriale prima e nella società di massa poi, hanno inevitabilmente alimentato una contrapposizione ideologica e storico-politica tra i sostenitori di un modello di società dio tipo liberal-capitalistico e coloro che a questa organizzazione del potere, come Karl Marx e i marxisti, si opponevano a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Una contrapposizione che ha segnato gli studi storici per tutto il Novecento, dando vita a nuovi filoni di ricerca nati con l’obiettivo di analizzare la composizione e l’organizzazione del potere nella moderna società di massa. Gli studiosi di storia politica non potevano in questo quadro che assumere la questione delle élites dirigenti, nella nuova società industrializzata, come il tema a cui dare un particolare rilievo. Così, d’altronde, hanno fatto altri studiosi di varie discipline economiche e sociali, e proprio dalle diverse letture dei caratteri complessi della società di massa è emersa l’esigenza di un mutamento degli stessi strumenti metodologici e dei riferimenti tematici della ricerca storica così come fino alla vigilia della seconda guerra mondiale si era andata sviluppando.

A sollecitare questi mutamenti nello studio dei nuovi ceti dirigenti nella società di massa sono alcune ricerche di studiosi che non esprimono una loro precisa connotazione storica quanto invece quella di tipo sociologico che si va ben presto affermando sulla spinta delle scuole di origine anglosassone. Molti di loro contestano il pensiero di Marx e dei marxisti, i quali, con le loro elaborazioni, auspicano che l’élites dirigente possa essere rappresentata dal proletariato, dalla classe operaia, e vedono la società industrializzata divisa tra classe dominante e proletariato. Altri si muovono in sintonia con le posizioni di Mosca, Pareto e Michels (fondatori della scuola dell’elitarismo italiano) e insistono sulla quasi totale identificazione della classe dirigente con la classe politica, mentre muovono una critica alla teoria marxista sulle classi sociali, e ritengono la classe politica il ceto che rappresenta l’insieme degli organizzati. Analogamente, diversi studiosi valorizzano le posizioni di Max Weber che criticano la teoria marxista, mentre vedono la classe dirigente rappresentata da una specifico e professionalizzato ceto sociale.

Nell’immediato secondo dopoguerra questa tematica è ripresa proprio in uno dei Paesi più sviluppati come gli Usa, dove Charles Wright Mills, con la sua opera più nota del 1956 Le élite del potere critica la classe dirigente nelle sue componenti economiche, politiche e militari, ma ancora prima James Burnham con La rivoluzione dei tecnici, rifletteva sull’evoluzione economica e produttiva della società americana analizzando il conflitto tra i poteri nelle realtà sviluppate mettendo in evidenza l’affermazione di una nuova figura sociale dirigente come quella dei tecnici.

Su un altro versante, di ispirazione marxista e laburista, alcuni studiosi come Karl Polany, Thomas Bottomore ed Edward P. Thompson, analizzano la complessa stratificazione sociale che si è andata determinando nelle società capitalistiche all’interno delle quali si articola il conflitto tra le classi, mentre criticano la teoria classica delle élites che ritengono essere espressione del pensiero politico ultraliberale e conservatore.

A dare un contributo ulteriore all’analisi della società moderna negli anni Ottanta interviene Robert Dahl, che evidenzia il forte processo di democratizzazione dei sistemi politici contemporanei testimoniato dal passaggio dallo Stato liberale d’élite allo Stato sociale di democrazia diffusa, dove la classe dirigente è rappresentata da un insieme di componenti politiche, economiche e sociali e dove i cittadini possono partecipare in modo diretto o indiretto alle decisioni collettive.

Tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta si riapre il dibattito tra elitisti e pluralisti, mentre particolarmente criticate sono le posizioni espresse da Mosca, Pareto, Michels, e in parte dallo stesso Joseph Alois Schumpeter. Al dibattito partecipa anche R. Dahrendorf che ridefinisce il concetto di leadership in termini democratici, e con altre posizioni intervengono vari studiosi. Tra questi Rawls, mentre le teorie di Schmitt e Hans Kelsen si collocano al centro del dibattito su tematiche giuridico-politiche e analizzano i caratteri della società di massa e dei suoi molteplici conflitti che propongono di regolamentare o istituzionalizzare secondo principi di libertà e non di eguaglianza (Schmitt e Kelsen) o secondo il criterio della giustizia distributiva (Rawls). Accanto a loro, nel campo economico, le posizioni di Hayek e Von Mises si confrontano con quelle di Keynes, sostenitore dell’intervento statale nelle economie sottosviluppate.

 

3. Per una storiografia delle classi dirigenti in Italia

A partire dagli ultimi decenni, anche in Italia la riflessione storiografica che si è avviata ha condotto a una progressiva rimessa in discussione della storia politica così come era stata ricostruita e interpretata per lungo tempo, giungendo a una prima letteratura storica innovativa frutto della avvenuta contaminazione fra ricercatori storici e studiosi del vasto campo delle scienze sociali, economiche e giuridiche.

D’altronde, questa reciproca contaminazione ha alimentato filoni storiografici specifici e in parte del tutto nuovi, pur riconducibili al più ampio ambito della storia politica. Si sono infatti approfonditi gli studi sulla storia delle borghesie, della nobiltà e dell’aristocrazia; si è meglio delimitato il campo della storia istituzionale e amministrativa, così come quello della storia elettorale e dei partiti. Analogamente, ha trovato più spazio la storia dell’industria, degli imprenditori e delle banche così come quella delle professioni e delle imprese. Al tempo stesso, hanno raccolto attenzione nuovi studi di storia della cultura e dei movimenti sociali assieme alla storia delle università e di molte istituzioni culturali, così come le ricerche legate alla storia della burocrazia o degli apparati statali. Non sono peraltro mancate nuove ricerche sulle gerarchie ecclesiastiche, sui tecnici e gli scienziati nel loro rapporto con il potere politico, sugli esponenti del mondo del giornalismo così come sulla storia e il ruolo delle organizzazioni riservate o massoniche. Inoltre, in molti di questi studi i profili biografici dei principali protagonisti degli eventi hanno assunto una loro rilevanza, diventando quasi un nuovo genere storiografico.

L’insieme di questi studi è d’altronde anche il frutto di quella riflessione avviata fin dai primi anni Sessanta sull’identità e la funzione che viene svolgendo la nuova classe dirigente di cui sono testimonianza diversi convegni e ricerche compiute anche con nuove metodologie.

In questi anni viene ad affermarsi un carattere interdisciplinare nella ricerca storica con l’ausilio delle diverse scienze sociali, che prospettano anche un nuovo modello narrativo e interpretativo. Questa innovativa prospettiva storiografica trova spazio in anni in cui avvengono trasformazioni economiche e sociali particolarmente radicali che si realizzano in così poco tempo, se paragonate a quelle dei secoli precedenti, e inoltre si muovono nel contesto di una nuova globalizzazione, dopo la seconda guerra mondiale, che contribuisce a produrre cambiamenti nell’organizzazione del potere interno agli Stati, nel rapporto tra le nazioni, mentre muta la composizione e la funzione delle classi dirigenti anche in Italia.

D’altronde anche nella penisola italiana, a partire dal secondo dopoguerra, si sviluppa un’industrializzazione diffusa, sollecitata dall’insieme delle scoperte tecnico-scientifiche, mentre la crescita della società porta alla progressiva scolarizzazione, alla diffusione della stampa e dei mezzi di comunicazione, alla crescita dei diritti di cittadinanza, all’espansione dello Stato sociale e alla presenza crescente dello Stato imprenditore. L’insieme di queste trasformazioni riaprono interrogativi e riflessioni sui caratteri dell’identità nazionale a partire dal processo di formazione dello Stato nazionale unitario. Nel metodo analitico si va oltre l’antitesi sincronia/diacronia e in molti studi si comincia a riconsiderare l’intera storia italiana ricostruendo l’esperienza di alcune componenti della classe dirigente nel loro rapporto tra centro e periferia.

In questi anni altri studiosi, affinando le metodologie e ampliando la ricerca delle fonti, approfondiscono i caratteri specifici assunti dalla classe dirigente nel ventennio fascista.

Analoghi studi, sempre più caratterizzati dall’interdisciplinarietà tra metodologie proprie delle scienze storiche con quelle delle scienze sociali, vedono la luce a partire dagli anni Settanta sulla classe dirigente dell’Italia repubblicana, particolarmente articolata e nella sua composizione politica, sociale e culturale.

Nel quadro di questi studi sulle classi dirigenti contemporanee negli ultimi decenni hanno trovato un particolare spazio le ricerche sulla storia delle professioni cosiddette liberali, o borghesi, che proprio in Italia per consistenza quantitativa e ruolo sociale hanno visto accrescere la propria funzione dirigente, almeno dai primi del Novecento.

Più in generale, quindi, sulla base dei tanti studi che si hanno a disposizione non è difficile sostenere che la classe dirigente italiana, soprattutto in età contemporanea, risulta essere costituita da un insieme di componenti non certo e non solo quelle espresse dal ceto politico, ma anche quelle imprenditoriali, economiche, sociali, culturali, religiose, burocratiche. Esistono d’altronde una serie di specifici studi compiuti da storici economici, storici sociali, studiosi di storia politica, sociologi, storici istituzionali, storici della cultura e altri che potrebbero contribuire a costruire una possibile storia generale delle classi dirigenti.

Alla luce della consistente storiografia esistente si potrebbero individuare almeno dieci componenti sociali da prendere in considerazione per accrescere ulteriormente la storia generale della classe dirigente: a) singoli imprenditori e gruppi imprenditoriali pubblici e privati; b) manager e dirigenti del mondo economico e finanziario, tecnici e manager delle aziende di Stato; c) membri delle istituzioni rappresentative e di governo nazionale, regionale e locale; d) dirigenti della burocrazia statale, regionale e locale; e) leader politici di partito e di altre associazioni politiche, dirigenti delle organizzazioni sindacali e dei movimenti sociali e di massa; f) liberi professionisti, avvocati, medici, ingegneri, architetti, notai, manager; g) giornalisti, editori, dirigenti dei mezzi di comunicazione di massa; h) rettori, docenti universitari, dirigenti delle istituzioni culturali e per la ricerca scientifica; i) gerarchie ed esponenti delle organizzazioni religiose; j) corpo diplomatico, forze dell’ordine, esercito, istituzioni militari, prefetti, magistratura. Un discorso a parte va fatto per alcune Associazioni cosiddette riservate, trasversali, di tipo laico, come le organizzazioni massoniche, ma anche per altri versi cattoliche, che vedono al loro interno importanti personalità considerate esponenti della classe dirigente.

Questi studi, che potrebbero essere definiti settoriali, secondo una vecchia metodologia storico-ricostruttiva, risulterebbero invece utili a sviluppare quella composita bibliografia di base già esistente e rappresentata dalle ricerche di Alberto Maria Banti sulla storia della borghesia; di Giorgio Rochat, insieme a Mario Isnenghi sugli ufficiali nella storia militare; di Giancarlo Jocteau sulla storia della Magistratura che, con Guido Neppi Modona e Pietro Saraceno, ha contribuito a sviluppare; poi di Maria Malatesta per le ricerche sulle professioni; di Maria Serena Piretti e Fulvio Cammarano sui parlamentari e i consiglieri regionali; di Oscar Gaspari sulle élites locali, l’Anci e i Comuni; di Marina Giannetto e Giovanna Tosatti sull’attività della burocrazia otto-novecentesca; di Fabio Grassi Orsini che ha curato il primo dizionario biografico della diplomazia italiana; di Sabino Cassese e Guido Melis che si sono occupati dell’organizzazione dello Stato e della Storia dell’amministrazione; di Franco Amatori, Paride Rugafiori, Valerio Castronovo e Marco Doria che hanno studiato la storia delle imprese e degli imprenditori.

Accanto a questa consistente letteratura storica sull’insieme delle classi dirigenti appare utile considerare anche la loro azione nel contesto delle relazioni tra i vari Stati europei e quelle internazionali in cui si trovano a esercitare il loro potere, soprattutto in un Paese come l’Italia e, in particolare, negli anni della guerra fredda, che non a caso ha fatto parlare di un Paese a “sovranità limitata”.

Naturalmente, molte ricerche “settoriali” attendono ancora di essere precisate e approfondite, ma quella che oggi alcuni storici chiamano la crisi della storiografia può certo essere superata individuando nuove domande storiche a cui rispondere con più adeguate metodologie, come quelle espresse nei numerosi studi sulle classi dirigenti e, soprattutto, in un contesto comparativo internazionale all’interno del quale, oramai da molti decenni, si muovono le varie ricerche, almeno nel mondo occidentale.

 

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