"DIFFICILE NEGARE LA GUERRA CIVILE"
"A proposito della polemica sui libri di Marcello Marcellini riguardanti la resistenza ternana"
di Alberto Stramaccioni
Da qualche tempo, soprattutto a Terni, si è innescata una polemica storico-politica sui contenuti dei due libri scritti da Marcello Marcellini, avvocato riguardanti le vicende della resistenza armata al nazifascismo ed in particolare su alcuni episodi di guerra civile avvenuti tra Umbria e Lazio nella primavera del 1944.
Il primo libro in particolare “I Giustizieri” pubblicato l’anno scorso (il secondo, “Un odio inestinguibile” uscito da pochi mesi) ricostruisce attraverso una nutrita documentazione le complesse vicende che videro protagonista la Brigata partigiana “Antonio Gramsci” attiva nel territorio appenninico delle provincie di Terni e Rieti e in particolare a Leonessa, contro le forze tedesche e della Repubblica Sociale italiana.
Il primo libro è diviso in due parti. Nella prima l’autore sostiene che la Brigata Gramsci, avrebbe compiuto almeno sei azioni violente a casa di alcuni civili, tra l’11 marzo e il 18 maggio 1944. I partigiani responsabili, una volta processati vennero assolti dalla magistratura negli anni Cinquanta in primo o in secondo grado perché le loro azioni furono considerate “atti di guerra” nonostante che l’autore le descriva come “violenze gratuite, sevizie, omicidi brutali, feroci e ipocritamente ammantati di connotati politici”. L’attenzione dell’autore è concentrata sul ruolo della Brigata Gramsci, una delle più consistenti ed efficienti organizzazioni partigiani del centro Italia, costituita da un forte nucleo originario di comunisti a cui dopo l’armistizio si erano uniti giovani sbandati, renitenti alla leva e slavi provenienti dal carcere di Spoleto.
Marcellini nel suo libro ritiene la Gramsci responsabile in particolare delle rappresaglie nella località di Polino l’11 marzo, Ferentillo il 26 aprile, Montefranco il 4 maggio, Morro Reitano il 18 maggio 1944, ai danni sia di esponenti fascisti che di civili non impegnati nei combattimenti provocando la morte di almeno sette persone.
Nella seconda parte del libro Marcellini, attraverso un lavoro di ricerca tra documenti e testimonianze, ricostruisce questi tragici episodi che hanno lasciato traccia negli archivi dei tribunali e mette in luce, fra l’altro, come le tesi difensive degli accusati (“erano spie dei nazifascisti”…”ci è stato ordinato”…”non ricordo…”) abbiamo molti elementi in comune con altri processi celebrati in altre regioni d’Italia nello stesso periodo contro esponenti delle forze partigiane accusate di omicidio, spesso con l’aggravante della crudeltà. Secondo Marcellini poi gli assassini di cui si resero responsabili alcuni partigiani, furono determinati da ragioni che poco avevano a che fare con gli ideali della lotta di liberazione e l’autore contesta le interpretazioni di “certa storiografia resistenzialista” che ha attribuito la responsabilità degli eccidi agli slavi della brigata, “capaci di uccidere in ogni occasione a sangue freddo”. In realtà le cose andarono in modo diverso, secondo Marcellini, il quale racconta quelle uccisioni compiute spesso con particolare efferatezza, da quella di Jolanda Dobrilla, una ragazza istriana rastrellata dai tedeschi (e condotta con loro quale interprete per tradurre gli ordini impartiti agli italiani impiegati nei lavori di fortificazione allestiti dalla Wehrmacht sulla Linea Gustav), a quelle del capo operaio Maceo Carloni, sindacalista alle acciaierie di Terni, del postino di Configni, Primo De Luca, milite della GNR, del repubblicano di fede mazziniana Pietro Montesi.
Contro questa ricostruzione e interpretazione della resistenza ternana e di alcune particolari vicende riguardanti le azioni partigiane si sono subito pronunciate le organizzazioni degli antifascisti ternani e nel merito della ricostruzione storica, è intervenuto “Micropolis” fascicolo mensile del quotidiano “Il Manifesto” con gli interventi di due storici: Renato Covino e Marco Venanzi. Covino evidenzia come l’indagine storiografica del Marcellini è una sorta di “romanzo storico a tesi” in cui alle ipotesi di ricerca si sostituiscono tesi precostituite, per dimostrare le quali i fatti vengono decontestualizzati e le fonti accuratamente selezionate in funzione dell’assunto iniziale, cioè del deliberato intento di dimostrare che i partigiani erano in realtà assassini, i quali approfittarono della situazione per compiere atti di criminalità comune. La lettura data da Marcellini, secondo Covino, sostiene che le controrappresaglie partigiane avvenute tra Umbria e Lazio dall’11 marzo al 18 maggio 1944, non sarebbero altro che, (e Covino cita testualmente un passo del libro) “delitti efferati e compiuti a sangue freddo con persone che venivano sequestrate di notte, in casa davanti a mogli e figli, trascinate fuori e uccise, bastonate e pugnalate. Spesso venivano evirate, ai cadaveri venivano strappati gli occhi e non abbiamo prove che queste mutilazioni siano state effettuate dopo la morte”.
Venanzi entrando più nel merito delle vicende ricostruite sostiene che oltre ai cruenti dettagli per sottolineare la “barbarie” partigiana, Marcellini ci dice poco, e quel poco gli permette di ricostruire in modo unilaterale e de-contestualizzato la (sua) presunta verità. Ecco allora che dell’uccisione di Luigi Martinelli e Alberto Guadagnoli dell’11 marzo 1944, l’autore, secondo Venanzi, ignora, volutamente, alcuni antefatti imprescindibili, come la rappresaglia di Poggio Bustone, ordinata da Ermanno di Marsciano che il giorno prima (il 10 marzo 1944) provocò 5 morti, numerosi feriti, incendi e saccheggi. In seguito, tra marzo e aprile, sostiene Venanzi, – quando Poggio Bustone viene riconquistata, saccheggiata e messa a fuoco da tedeschi e fascisti, con un bilancio di 11 persone fucilate, a cui si aggiungono i 18 morti di Morro Reatino (con Costantino Rossi chiuso e bruciato vivo in casa) – i rastrellamenti fascisti conteranno 51 morti a Leonessa, 15 a Rieti, 38 nella zona tra Narni, Otricoli e Calvi, 63 nel Nursino e nel Casciano, e, infine, 25 nella Valnerina, senza enumerare i deportati che sarebbero stati tra le varie zone almeno 3504. Secondo Venanzi, dopo questo pesante colpo inferto alla brigata Gramsci si decide di preparare una controrappresaglia. Sarà questa a colpire, secondo la ricostruzione di Venanzi, Maceo Carloni, aderente dal 1932 al Pnf e dirigente sindacale fascista e Augusto Centofanti, ex squadrista un “fascista accanito”, nelle parole del commissario prefettizio (fascista) del paese Francesco Riccardi, la cui testimonianza non sembra interessare Marcellini, sempre secondo Venanzi. Piuttosto l’autore, prosegue Venanzi, preferisce indugiare sui particolari macabri dell’uccisione, utilizzando solo i documenti che sostengono le tesi delle “sevizie” e omettendo quelli che le negano, come il referto del medico che dichiara di non poter accertare mutilazioni sul corpo di Centofanti, dato l’avanzato stato di decomposizione. Anche nel caso di Giuseppe Contieri, finanziere di Macenano, Marcellini, secondo Venanzi, compie la stessa operazione fatta di omissioni ed enfatizzazione dell’esecuzione, tesa a dimostrare che anche quest’ultimo fu vittima della furia rancorosa di pochi partigiani contro presunte spie e delatori. In realtà numerose fonti, documenta Venanzi, ci indicano un’ostilità popolare diffusa verso la figura autoritaria di Contieri, ed inoltre dai documenti dell’indagine giudiziaria dei carabinieri emerge un’omertà assoluta tra i paesani, che fa molto verosimilmente ritenere, prosegue Venanzi, che intorno a quella esecuzione vi fosse il consenso della popolazione. Marcellini, al contrario, insiste Venanzi, si limita alla dichiarazione di Palmieri (capo dello spionaggio fascista) di non conoscere Contieri, omettendo le dichiarazioni di Silvio Santini, dirigente del Pnf poi diffidato dai partigiani, che invece Contieri lo conosceva bene perché era stato proprio lui a metterlo in guardia rispetto alle intenzioni dei partigiani.
Sul merito delle carte processuali citata da Marcellini, Venanzi, rileva che l’autore insinua che negli anni Cinquanta, in una fase di acuta repressione anticomunista, il Pci avrebbe condizionato la magistratura. Marcellini infatti utilizza come fonte di documentazione la cosiddetta storia giudiziaria (e la tradizione orale, purché compiacente), afferma Venanzi, con l’obiettivo, tutt’altro che sottaciuto, di denunciare il non luogo a procedere nei confronti dei reati ascritti ai partigiani che, subito dopo la guerra, vennero ritenuti oggetto di amnistia in quanto considerate “azioni di guerra o di lotta contro il fascismo”.
Alla ricostruzione dei fatti e delle interpretazioni di Marcellini hanno dunque contrapposto altrettanti fatti e interpretazioni Covino e Venanzi. Confutazioni convincenti, dalle quali è comunque difficile negare che i fatti accaduti tra Terni e Rieti nella primavera del 1944 (ma anche in tanti altre parti soprattutto dell’Italia del nord), sono vicende tipiche di una guerra civile. E contestualizzare gli eventi serve sicuramente a comprendere meglio la fase storica, ma non può giustificare le violenze efferate qualsiasi parte esse siano state compiute. E con ciò non si tratta di voler dimenticare o sottovalutare chi ha combattuto dalla parte giusta e chi invece da quella sbagliata contro la libertà e la democrazia.
I libri di Marcellini hanno suscitato quindi un dibattito certamente non nuovo in termini generali, ma abbastanza inedito per la realtà umbra dove gli episodi di guerra civile furono limitatati e circoscritti ai luoghi dove più intensa era l’azione partigiana o la rappresaglia nazifascista. Ma al di là delle possibili forzature o decontestualizzazioni o delle facili propensioni ad uno spregiudicato uso politico della storia è difficile negare che è esistita una guerra civile tra italiani fascisti e italiani antifascisti nel contesto di una guerra globale dove c’è stata di certo anche una guerra ai civili, da parte dei tedeschi e degli alleati. La seconda guerra mondiale è stato un conflitto totale, particolarmente pervasivo e devastante come mai era avvenuto prima e guardarlo solo dall’angolo visuale della resistenza antifascista e antinazista, anche se legittimo (oltre le diffuse mitizzazioni risultate utili a fondare l’identità della Repubblica democratica e della sua Costituzione dopo il ventennio fascista) rischia però di assecondare una lettura parziale e incompleta. In un evento come la seconda guerra mondiale i vincitori e i vinti sono stati comunque vittime di una comune violenza disumana, efferata e particolarmente distruttiva.