Giovedì 08 Aprile 2010
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"LA CRISI VIENE DA LONTANO"
"Intervista alla rivista "Diomede" - Umbria Rossa, Ascesa e crisi (1945-2010) - gennaio-aprile 2010"   df

di Gabriella Mecucci

Alberto Stramaccioni è nato nel 1956. Dal 1992 al 2001 è stato prima segretario della Federazione Provinciale di Perugia e poi segretario regionale dell’Umbria e membro della Direzione nazionale del Pds e dei Ds. Nel 2008 è stato eletto segretario provinciale e membro dell’Assemblea Nazionale del Partito Democratico. Eletto alla Camera dei deputati nella XIV e XV legislatura è stato parlamentare dal 2001 al 2008, membro della Commissione Difesa, della Commissione bicamerale d’inchiesta sull’occultamento dei crimini nazifascisti e della Commissione per le ricompense al valore civile. Laureato in Filosofia, insegna Storia contemporanea all’Università per Stranieri di Perugia ed ha pubblicato studi e ricerche sulla storia dei sistemi politici nel corso dell’Ottocento e del Novecento. La sua ultima pubblicazione edita dagli Editori Riuniti è Storia d’Italia 1861-2006.


Perche è i comunisti, hanno governato così a lungo in Umbria e i loro eredi politici continuano a farlo?

Partiamo dall’immediato dopoguerra: allora la questione che emerse sin da subito fu quella agraria e mezzadrile. La popolazione umbra era composta da un migliaio di agrari che possedevano praticamente tutta la proprietà terriera della regione ed avevano intorno a loro centinaia di migliaia di mezzadri molto poveri (ndr nel censimento del ’51 i lavoratori agricoli, mezzadri e contadini, erano il 50% della popolazione), e numerosi ceti professionali cittadini, borghesia molto legata al mondo dei mille agrari. La maggioranza dei mille agrari –questo il problema- era piuttosto antimoderna. Era sostanzialmente contro lo sviluppo industriale dell’Umbria, ammesso ce ne fossero le condizioni. Questa cultura antindustriale non costituiva una novità: c’era dalla fine dell’Ottocento – primi del Novecento. Mantenerla immutata, dopo la Seconda guerra mondiale, però, mentre il mondo si andava sviluppando con innovazioni tecnologiche e scientifiche straordinarie, con l’allargamento dei mercati, ha fatto correre all’Umbria il rischio di apparire come una regione molto chiusa ed arretrata, più di quanto nei fatti, una parte consistente della popolazione della regione potesse sopportare. Mezzadri contro agrari, dunque, ma anche – grazie ad una contrapposizione un po’ forzata e in parte artificiosa che il Pci ebbe la capacità però di rendere credibile – fra conservazione-reazione, rappresentata dagli agrari, e modernità interpretata dai comunisti. Il mondo cattolico e la Dc, infine, non riuscivano a stare né dalla parte degli agrari né da quella dei mezzadri.

Luciano Radi sostiene che una parte della Chiesa, della Curia, dei sacerdoti erano essi stessi proprietari terrieri…

E’ così. Se si guarda alla zona dell’Alta Umbria – per fare l’esempio più visibile – c’erano i preti amministratori di latifondi o comunque di grossi appezzamenti di terreno. Per cui, comunque, il mezzadro vedeva nel sacerdote la controparte e, per questo, si è rafforzata la cultura anti-clericale che era già nata durante lo stato pontificio.

La cultura anticlericale che si diffonde finisce dunque col favorire la sinistra?

Sì. I cattolici sono sempre stati piuttosto intransigenti: lo era certamente la parte maggioritaria di questi. Non erano conciliatoristi, non si identificavano con lo stato. Anzi, erano portatori di una cultura antistatale. Teniamo conto poi anche del grande ruolo che in Umbria ha ricoperto la massoneria: a Perugia, ma anche in alcune altre città umbre. Se nell’Ottocento c’era una massoneria monarchica e una massoneria repubblicana, una moderata e una liberale, nel dopo Seconda guerra mondiale, la massoneria si collocò in una posizione di mediazione tra le parti. Non va dimenticato che molti dirigenti socialisti erano massoni e che il Psi era forza di governo in Umbria.

Torniamo al Pci. Da una parte egemonizza le grandi masse contadine e dall’altra – all’interno della città – stabilisce rapporti privilegiati non solo con gli operai ma anche con quei ceti – come lei diceva – che vedono comunque negli agrari delle forze reazionarie, penso in particolare agli artigiani. Una strategia intelligente quella dei comunisti…

Sì, anche se non va enfatizzato il ruolo del partito. Il Pci, agli occhi dei mezzadri, non era quella grande organizzazione ideologica, legata al potere sovietico. Loro entravano in contatto con i centro quadri, poco più che alfabetizzati, che stavano nei paesi e nelle città, che erano tornati dalla guerra, che avevano fatto i partigiani. Rientrati nel loro paesi di origine – anche a causa della grande povertà – erano diventati dei capi popolari naturali. Quando si parla di lungimiranza del gruppo dirigente del Pci tra gli anni ’40 e ’50, più che una particolare originalità e capacità egemonica di questo, vedo un suo assecondare i movimenti sociali contro la povertà e l’arretratezza. Movimenti dovuti ad una situazione particolarmente difficile dell’Umbria. Se infatti guardiamo la vita interna del Pci in quel periodo scorgiamo continue lotte, tensioni, problemi, conflitti. Tantoché vengono inviati da Roma alcuni importanti quadri. Non c’è una vera autonomia organizzativa e politica del gruppo dirigente comunista umbro negli anni dell’immediato dopoguerra. Non esisteva nella nostra regione una direzione politica che fosse anche espressione della borghesia intellettuale, come accadde a Firenze o a Bologna. Noi eravamo molto più arretrati.

Una certa borghesia intellettuale a Perugia, per fare un esempio, c’è stata. Penso ad Innamorati, a Rasimelli…

Poca. E non ha mai avuto un grandissimo ruolo.

E Rasimelli?

Rasimelli rappresenta un mix un po’ particolare. Intendo dire che Rasimelli è una persona diversa da tutti gli altri. Alla passione politica ha legato la competenza professionale. Alcuni dirigenti del Pci stabilirono legami con l’imprenditoria minore, mentre erano subalterni verso le grandi famiglie della borghesia industriale, dai Buitoni agli Spagnoli, ad altri. E poi, c’era una forte dipendenza anche dall’imprenditoria di stato che a Terni, era una potenza. In città contava più l’amministratore delegato della Terni che il sindaco. Eppure c’erano comunisti ovunque, molto più che a Perugia.

Non si può negare però che la creazione dei sindaci-capilega da parte del Pci costituisce un’importante intuizione, non condivisibile perché mescolava il profilo istituzionale con quello sindacale e di partito, ma molto significativa e foriera di notevoli successi…

Molti di questi sindaci capilega li abbiamo conosciuti quando eravamo giovani e loro ormai anziani. Penso a Serrafini di Città della Pieve, a Pierucci di Città di Castello, a Sonaglia di Umbertide, a Pallucco di Spoleto, a Meoni di Castiglione del Lago. E ad altri. Erano dei personaggi molto importanti nello loro cittadine, ma che poco pesavano nella direzione provinciale e regionale del partito. Aldilà delle loro realtà locali, non contavano quasi nulla: non erano certo dei leader politici veri e propri. E’ uno stravagante paradosso, ma è così: tanto erano importanti in periferia quanto poco nel capoluogo. Me li ricordo, quando venivano a Perugia negli anni Settanta per partecipare ad una riunione di partito. Spesso si raccoglievano intorno ad Ilvano Rasimelli che consideravano una specie di guru. Pendevano dalle sue labbra. Lui aveva con loro un rapporto bonario, ma anche molto paternalistico.

Ma nel mondo mezzadrile contavano parecchio.

Sì, questo è vero, ma – mi ripeto – non erano dei dirigenti politici nel senso pieno del termine. I primi veri dirigenti del Pci sono quelli che si sono impegnati e formati nel primo dibattito sulla programmazione regionale: il gruppo cioè cresciuto e cementato fra il ’59 e il ’60 e che poi ha guidato il partito sino e oltre la metà degli anni Settanta. Penso a Conti, a Galli, a Rossi, a Maschiella, a Gambuli, a Rasimelli, a Ottaviani e ad altri.

Ha accennato al dibattito sulla programmazione regionale degli anni Sessanta, E’ forse quello il momento più alto del confronto politico regionale?

In genere quando si parla si dibattito sulla programmazione regionale, si parla di due fasi: quella degli anni Sessanta e quella del decennio successivo. Ritengo che la prima sia l’unico grande momento di creatività e di confronto, la seconda rappresenta, esistendo già la Regione come istituzione, una messa a frutto delle analisi elaborate nella prima, traducendole nella costruzione concreta dello stato sociale regionale. Si tratta dunque di una fase attuativa, non di studio e di elaborazione: occupò tutti gli anni Settanta. Con la nascita della Regione arrivarono i soldi e si poterono fare le leggi per utilizzarli. L’Umbria era ancora arretrata e quel decennio di attività ebbe un impatto particolarmente importante nella costruzione del consenso. Si passò dall’amministrazione dei comuni al governo di una regione. Ho sempre pensato che il Pci aveva localmente una doppiezza che non è propriamente quella togliattiana. E’ una doppiezza in salsa umbra: fatto di molta ideologia rivoluzionaria e di altrettanta pratica riformista. Non bisogna dimenticare che il Pci ha ininterrottamente governato quasi tutte le amministrazioni locali, se si fa eccezione per Assisi e la Valnerina, a parte la parentesi del centrosinistra di circa un quinquennio, in alcune città fra le quali Perugia.

Torniamo al dibattito degli anni Sessanta sulla programmazione regionale…

Vorrei dire subito che in quel periodo si riprese a studiare l’Umbria, a tentare di conoscerla. E questo non accadeva più dalla fine dell’Ottocento, al massimo da primi due decenni del Novecento. Scesero in campo allora due gruppi di intellettuali, quello fanfaniano-democristiano e quello comunista, entrambi abbastanza ferrati. Guardandoli retrospettivamente hanno commesso l’errore di pensare che l’Umbria, proprio perché povera ed arretrata, si potesse sviluppare solo con i soldi dello stato, con l’industria di stato e con la grande industria privata. Nessuno di loro – né i comunisti né i democristiani – ha mai puntato su una rete di piccola e media impresa. La loro mentalità era prevalentemente statalista.

E i socialisti?

Alcuni di loro erano un po’ diversi. Penso ad un esponente sindacale come Mario Potenza. I sindacalisti stavano a contatto con i problemi concreti ed erano più avvertiti, meno ideologici. Capivano che lo stato non poteva essere tutto. Che una sua eccessiva presenza impigriva il sistema imprenditoriale. Cosa che poi abbiamo toccato con mano negli anni Ottanta con la deindustrializzazione che allora si verificò. Questa era discendente diretta dell’industrializzazione degli anni ’60 e ’70. La piccola e media impresa nasceva e moriva, moriva e nasceva. Occorreva cercare di consolidarla, di portarla da piccola a media: sarebbe stata un’alternativa all’industria di stato di Terni e alla Perugina a Perugia. Ma i comunisti non lo capirono e – per la verità- nemmeno i democristiani.

Tornando agli anni Sessanta, lì cresce un gruppo dirigente vero che conosce l’Umbria. Dopo aver perso al tempo delle grandi battaglie mezzadrili, la Dc non ce la fa per la seconda volta a rompere l’egemonia del Pci, perché?

La volontà del gruppo dirigente democristiano di non misurarsi mai in termini di analisi e di politica regionale finché non è stata istituita la Regione, è stata per quel partito un freno pesantissimo. Al contrario, il Pci ha ragionato sempre con una logica regionalista. I democristiani si sono, col tempo, sempre più aggrappati al governo nazionale, trasportando quel potere nei collegi dove venivano eletti deputati e senatori dello scudocrociato. L’esempio più evidente di un simile comportamento sono gli incentivi per Assisi, che spinsero un imprenditore come Colussi a fare la propria fabbrica in quella zona. Furono Ermini e Spitella a garantire questo privilegio alla città. Un secondo esempio riguarda il ternano dove il Dc Micheli, che aveva un enorme potere all’interno delle partecipazioni statali, faceva arrivare copiosi finanziamenti. Malfatti è stato l’unico democristiano ad avere una visione regionale, ma non era umbro e non era nemmeno molto amato in Umbria. Questo atteggiamento: la politica, cioè, fatto collegio per collegio, senza una visione regionale ha rappresentato un grave handicap per la Dc. Mentre il gruppo dirigente del Pci si era mosso sin dagli anni Cinquanta e, poi, in modo particolare, a partire dall’inizio degli anni Sessanta in una logica umbra.

Carnieri ha ricordato nella sua intervista che in una campagna elettorale del passato il Pci utilizzò lo slogan “l’Umbria siamo noi”. Una frase che racchiude il continuo ancorarsi dei comunisti umbri all’idea di regione. Gli è stato risposto da più d’uno dei nostri intervistati che l’Umbria è troppo piccola, non ha la misura giusta per una vera programmazione, che sarebbe stata più utile se fatta in dimensioni più ampie, associando l’Umbria ad altri territori. La Dc, ad esempio, parlò in passato di “terza Italia”. Cosa ne pensa?

Questa è un’idea molto interessante per l’oggi. Ora la politica interregionale è una necessità. A quei tempi, però, intendo negli anni Sessanta ed immediatamente dopo, la politica della “terza Italia”significava consegnare l’Umbria ad una logica di politiche nazionali nell’ambito delle quali una regione come la nostra avrebbe rischiato di restare svantaggiata. O meglio, non ne avrebbe tratto tutti i vantaggi che invece ha ottenuto con le politiche regionali o locali. Mi spiego meglio. La logica del Pci, la cultura politica secondo cui si deve progettare lo sviluppo dentro il confine della regione, è risultata storicamente più utile perché l’Umbria ha al suo interno aree sviluppate e aree sottosviluppate. Così si sono incentivate le une e ben difese le altre, meglio che in una programmazione da “terza Italia”: probabilmente dentro questa categoria gli squilibri anziché assottigliarsi, sarebbero aumentati: l’Umbria del nord si sarebbe legata al Nord Italia, mentre certe aree del sud sarebbero state penalizzate. Nonostante giudichi positivamente la scelta regionalista, occorre riconoscere però che alcuni pesanti squilibri interni alla regione sono rimasti: se si considera il tessuto della piccola e media impresa, esso si sviluppa lungo la E45. Fuori da questa c’è ben poco. Il Pci puntava sulla Regione, naturalmente, anche per ragioni di potere: sia per convinzione politico-culturale, sia perché cosciente dei vantaggi che gli avrebbe procurato, i comunisti decisero di anticipare il “governo regionale”, prima che l’ente in quanto tale venisse istituito: le due Province (Terni e Perugia), infatti, si coordinarono per realizzare, già negli anni Sessanta, una programmazione che coinvolgesse l’Umbria intera.

Il Pci, dunque, anticipò il regionalismo?

Ho ritrovato alcuni documenti che attestano come una parte della Dc, segnatamente Micheli, era d’accordissimo con i comunisti di utilizzare le due Province per prefigurare la Regione futura. La nascita del Mediocredito regionale, voluta dalla Dc, stava poi dentro questa logica, non in quella della “terza Italia”. Voleva valorizzare infatti la dimensione, l’autonomia e l’identità umbra. Più avanti l’ipotesi regionalista è slittata verso una visione autarchica, mi si passi il termine un po’ forte. Questo è accaduto negli anni Ottanta e Novanta. E ancora oggi chi governa regione ed enti locali si fa spesso ispirare da una abbondante dose di autarchismo che talora diventa vera e propria chiusura. E questo non è un bene. Anche perché oggi c’è, al contrario, più che mai bisogno di aprirsi. Se per problemi quali lo sviluppo del turismo, la difesa dell’ambiente, le infrastrutture usi una logica di autosufficienza non vai da nessuna parte.

Parliamo di Perugia che è il capoluogo dell’Umbria. La ricordo come una città piuttosto importante, con una buona qualità della vita e un livello di dibattito intellettuale tutt’altro che disprezzabile, ora la situazione è nettamente peggiorata. Penso all’Università, ma non solo. Lo stesso gruppo dirigente del Pci era di gran lunga migliore di quello della anni Novanta. Per non dire della caduta dell’ultimo periodo. Ricordo la creazione di Umbria Jazz e soprattutto il grande dibattito sulla chiusura dello Psichiatrico e sulla psichiatria alternativa. Intendiamoci, era questa una ricerca molto discutibile, che conteneva anche errori ed eccessi, ma produceva cultura. Oggi questa vitalità è scomparsa, perché?

Quello che lei ricorda, accadeva negli anni Sessanta e Settanta soprattutto. Vorrei però che fosse ben presente il fatto che la borghesia intellettuale perugina non ha mai fatto parte del gruppo dirigente del Pci, non è mai stato fatto un tentativo di integrarla in qualche modo, di coinvolgerla per le sue competenze nel potere. E’ rimasta marginalizzata. Aggiungo che il gruppo dirigente comunista era sostanzialmente perugino centrico. Perugia è stata sempre, oggettivamente, la capitale politica dell’Umbria, da Pepoli in poi, ma allo stesso tempo è sempre stata poco studiata, analizzata, valorizzata la sua realtà culturale. Questa realtà veniva considerata una sorta di alleato a distanza del Pci, ma mai veniva portata dentro la politica, dentro alle più importanti scelte amministrative. Mi spiego meglio. I venti più autorevoli docenti universitari dell’area umanistico-giuridica dell’Università di Perugia negli anni Sessanta e Settanta erano personalità notevoli e in parte venivano da fuori Perugia. Venivano considerato dei compagni di viaggio dal Pci di Perugia. Non dialogavano però col Pci a livello locale, intrattenevano col partito rapporti solamente romani. I comunisti umbri avevano un’evidente subalternità intellettuale anche nei confronti del mondo culturale universitario: questa si manifestava sia con la sua marginalizzazione, sia col tentativo di ridicolizzare gli studiosi più originali e prestigiosi. Purtroppo questa tendenza provinciale e minoritaria affondava almeno in parte le radici nella cultura mezzadrile. Sta di fatto che il mondo universitario perugino è stato guidato per 31 anni da Ermini e per quasi 20 da Spitella, cioè due democristiani. I dirigenti comunisti locali, anche i migliori fra loro, hanno avuto sempre un’ottica abbastanza chiusa e hanno sempre vissuto l’università come una realtà per loro irraggiungibile. E questa è una cosa tipica di Perugia, vorrei dire unica per una città rossa. La situazione fu profondamente diversa in luoghi come Firenze e Bologna.

Ermini l’ha guidata bene l’Università?

Ermini non ha solo guidato, ma ha fatto l’Università degli Studi. Ho visto i dati dell’ateneo perugino anni Sessanta e Settanta, il progresso in termini di aumento delle facoltà, dei corsi di laurea, del numero degli inscritti è in proporzione molto, ma molto superiore rispetto alle altre sedi universitarie italiane. E’ vero c’è stato 31 anni (smise di fare il rettore nel ’76) e quindi ha avuto a disposizione molto tempo. E’ vero che ha fatto il ministro della Pubblica Istruzione e quindi ha avuto molto più potere di un normale rettore, ma senza di lui tante cose non si sarebbero potute realizzare. Mi raccontava Antonio Pieretti (ndr titolare della cattedra di filosofia teoretica e oggi Pro-rettore) che Ermini prese Palazzo Manzoni per ospitarvi la facoltà di Lettere senza avere a disposizione una lira. Era un palazzo abbandonato e in due, tre anni l’ha ristrutturato e ci ha messo la nuova facoltà, istituita nel 1957. Tutta la parte umanistica dell’Università non ha avuto inoltre che pochissimi e marginali rapporto col potere locale: l’atteggiamento del gruppo dirigente del Pci si trasferiva anche nelle istituzioni. Diversa è la storia di Medicina. In quel caso esistono le convenzioni fra università e ospedale, e, quindi, c’erano delle ragioni concrete d’incontro. Ma questa è stata una vera un’eccezione. I dirigenti locali comunisti, inoltre, non hanno mai investito nemmeno sulla borghesia professionale cittadina. Esaurivano il loro dialogo attraverso gli indipendenti di sinistra: Fernanda Maretici, Roberto Abbondanza e altri. Insomma, io non credo che il Pci in Umbria – abbia espresso una vera egemonia culturale. Ha marginalizzato una fascia importante di intellettuali e questo ha penalizzato e tutto penalizza la qualità di governo.

Questa intervista si sta trasformando in una serrata critica dei gruppi dirigenti del Pci?

E’ difficile non riconoscere che le cose stanno così. Ne aggiungo un’altra: non mi ricordo di una riunione in cui si sia discusso nel merito di piani urbanistici, o di ambiente, o di sanità, e, a conclusione della quale, venissero prese decisioni scaturite da quel confronto. C’era un dibattito ufficiale, che non produceva quasi mai scelte, e uno ufficioso, ben più concreto, che avveniva in altre sedi. Ti accorgevi che tutti erano molto presi dalle loro varie vicende alla Regione, alla Provincia, nei Comuni e erano poco appassionati e disponibili a discutere di politica senza una finalizzazione immediata. Poi magari, c’erano delle vere e proprie disfide su argomenti di natura prettamente ideologica, argomenti ormai vecchi, superati, da Jurassic Park.

E la Dc locale?

La Dc è diversa. In quel partito esisteva infatti una separazione tra la competenza tecnica e la competenza politica: non a caso non si è mai strutturato come un apparato di funzionari politici, ma di soli funzionari tecnici. I tecnici spesso erano anche politici, ma avevano una competenza nel merito delle questioni. Voglio dire che nelle decisioni contava molto anche la conoscenza tecnica dei problemi. Nel Pci, invece, troppo spesso il contenuto della scelta veniva esorcizzato dalla celebre frase che tutti noi abbiamo sentito milioni di volte: il problema è politico. E con questa si chiudeva inesorabilmente il confronto di merito.

Il primato della politica è tipico del comunismo…

Ecco, appunto. Il politicismo dei comunisti si nutriva di una lunga storia: da Macchiavelli alla trontiana autonomia del politico. In Umbria, c’è stato solo un periodo – l’ho già detto ma lo ribadisco – in cui si è tornati a studiare la società regionale, l’economia, la storia, e a discutere con impegno e competenza dagli anni Sessanta. L’unico gruppo dirigente comunista che si è cimentato davvero con questi temi è quello che si è formato allora. Poi non è più accaduto: i dirigenti successivi si sono misurati poco e niente con le questioni di merito. Erano inoltre poco autonomi rispetto alla generazione precedente di quadri: ciascuno di loro coltivava un rapporto con una sorta di padre politico dal quale non si era mai separato.

La nascita della Regione muta sostanzialmente la vita politica dell’Umbria e, in particolare, del Pci, dove a metà degli anni Settanta si consuma un grande scontro. Che cosa accade davvero fra la fine degli anni Sessanta e il 1975-1976?

Per l’Umbria, il presidente della Regione è una figura di grande rilevanza e di notevole potere. Un ruolo di gran lunga superiore a quello che il presidente assunse in Emilia e in Toscana. Analizzarne le ragioni sarebbe complesso. Richiederebbe l’apertura di una lunga parentesi. E’ importante però segnalare che lo scontro nel Pci avviene proprio per riaffermare che non c’è un uomo solo al comando di nome Pietro Conti. All’inizio, sino al ’72-73, non venne compreso il grande cambiamento negli assetti di potere che avrebbe introdotto la Regione e lo scettro che avrebbe consegnato al suo presidente, solo più tardi fu chiaro. Ed è da allora che si apre nel Pci il grande conflitto che porta alla sostituzione di Pietro Conti con Germano Marri. Secondo me, il partito ha iniziato a trasformarsi radicalmente in quegli anni. Mi spiego meglio. E’ entrato in crisi un organismo collettivo che analizzava, conosceva, discuteva, e progettava lo sviluppo dell’Umbria nella maniera più unitaria possibile. Dopo la Regione tutto finisce col concentrarsi in questa istituzione, nella sua presidenza, nella mani degli assessori. Diventa molto diffusa la tendenza nei quadri di partito a raggiungere l’obiettivo di un posto di potere alla Regione.

Era inevitabile che finisse così?

In fondo è stata la cultura istituzionale, prevalente nel Pci – che pure è un elemento per altri versi positivo – ad aver spinto le cose in questa direzione. Il potere nel partito e nella società – questo il convincimento diffuso – si può gestire davvero, solo se si governano le istituzioni più rappresentative e più importanti. E l’istituzione di gran lunga più importante è la Regione. E’ vero che il Pci ha sempre amministrato in Umbria, ma una cosa è avere nelle proprie mani i Comuni e le Province, un’altra è avere un potere unitario che può legiferare come quello della Regione. Muta profondamente la qualità del potere. Il fenomeno che porta il partito a farsi stato prende dunque piede con l’istituzione della Regione. Un processo lungo che, via via, logora quell’organismo dirigente collettivo che era stato il Pci in Umbria alla fine degli anni Cinquanta e Sessanta. Un processo questo – se è consentito un parallelo ardito- che è tipico dell’Unione Sovietica. Ricordo che si facevano riunioni solo ed esclusivamente sull’attività della Regione e su quello che diceva la Regione. O per sostenerla o per avversarla. Il punto di riferimento però era quello e, sempre di più, solo quello.

Eppure quando lei data l’inizio della crisi del partito, si verificarono importanti episodi politici promossi proprio dalla direzione regionale del Pci: penso ad esempio al dialogo che si aprì fra cattolici e comunisti…

Attenzione, fu l’arcivescovo Cesare Pagani ad aprirlo. Fu lui a porre il problema del rapporto fra i poteri, con le istituzioni, e, in particolare, con la massoneria. E bastò questa sortita, che ritengo di notevole interesse e importanza, per mettere in difficoltà i comunisti. L’alto prelato affrontava infatti un tema che il Pci non aveva mai affrontato: la questione della trasparenza dei poteri, del ruolo del Grande Oriente. Pagani criticava anche la Democrazia Cristiana: coloro che erano democristiani e anche massoni, ecc. C’era –quando parlò Pagani- un sistema politico tale che l’elemento consociativo prevaleva un po’ su tutto il resto, anche a danno della trasparenza e della democrazia stessa.

Ma c’era una consociazione anche con la massoneria?

Questa sarebbe uno di quei problemi da studiare. Negli anni Ottanta però – come ho già detto- il partito socialista era un punto di riferimento della massoneria più di altre organizzazioni politiche. E il Psi governava col Pci in Umbria. Ci sono numerose tesi di laurea che mettono in evidenza come moltissimi iscritti al partito socialista dichiaravano di essere anche iscritti alla massoneria, quindi era un dato oramai strutturale. Con la politica regionale il rapporto era - diciamo così- di buon vicinato. Quando nel 1993 sono venute fuori le liste degli iscritti alla massoneria è successo un pandemonio. Perché? In quell’occasione è emerso infatti il problema vero: quello di una sorta di doppia fedeltà, di un doppio giuramento di alcuni esponenti delle istituzioni, uno dei due era quello fatto alla massoneria. In quegli anni, che erano poi anche quelli di tangentopoli, si dimisero alcuni sindaci. Ritornarono allora sul tappeto i temi proposti più di dieci anni prima da monsignor Pagani. E non è che Pagani fosse un rivoluzionario: temeva semplicemente che il deismo massonico potesse essere confuso con la fede cattolica. Allora i comunisti risposero, ma furono scavalcati in lungimiranza dal mondo cattolico e non affrontarono, con tutta la serietà che meritava, la questione che avrebbe poi prodotto così importante sconquasso negli anni Novanta.

Abbiamo appena lambito il tema del Psi nel anni Ottanta. Il craxismo rappresenta a livello nazionale una grande innovazione, lo è stato anche per l’Umbria?

La politica la fanno le persone e, dal 1972 fino al 1992 nella nostra regione è stato eletto un signore che si chiamava Enrico Manca e , per vent’anni, lui è stato il punto di riferimento dei socialisti umbri, anche se c’era chi cercava di divincolarsi da questa logica. Ma lui c’era e decideva. Quando è stato presidente della Rai ha fatto dell’Umbria un terminale di iniziative nazionali. Manca non si muoveva su una linea craxiana: di craxismo da noi se ne è respirato ben poco. Non c’è stata la conflittualità a sinistra, eccettuati rarissimi episodi. Enrico Manca ha sempre voluto tenere un rapporto positivo con il partito comunista.

Insomma, il craxismo in Umbria non c’è stato?

C’è stato un “manchismo” con qualche elemento di craxismo. In Umbria c’era qualche dirigente craxiano, penso ad Aldo Potenza e altri, ma erano tutti abbastanza attenti a non urtare troppo Manca. Non era semplice per loro muoversi. Avevano pur sempre a che fare con un importante dirigente nazionale.

Lei ha mai avuto l’impressione che la Dc non volesse conquistare l’Umbria?

Ho sempre avuto la sensazione, come ho detto all’inizio che è difficile ragionare sulla Dc come un partito che aveva un approccio regionale unitario. Per i democristiani non hanno mai avuto un grande rilievo gli organismi dirigenti regionali. Si muovevano piuttosto con una logica politica legata ai collegi elettorali, alle zone d’influenza, ai vari leader delle correnti. Più interessante è vedere che cosa hanno fatto i dirigenti che a turno sono stati sottosegretari o ministri: è il caso di Ermini, Malfatti e Radi. Se facciamo questo tipo di analisi, scopriamo che Ermini è il padre dell’Università degli Studi, che Spitella si è mosso molto per la Stranieri, Radi ha operato a vantaggio di un certo mondo imprenditoriale, artigianale, commerciale, avendo anche prodotto analisi interessanti sulla situazione economica e sociale dell’Umbria, Malfatti ha portato avanti alcune aree (alta Umbria, Perugino), Micheli ha operato nel ternano e nella Valnerina, Bambagioni alla Cassa di Risparmio. Per non dire del ruolo che altri dirigenti intermedi della Dc hanno avuto nelle Camere di Commercio, la presenza del partito fra gli insegnanti, nei provveditorati e in altre articolazioni istituzionali e sociali. Insomma, la Dc ha contato molto in Umbria. Ha fatto molto. Non è vero che è stata assente o surclassata dal Pci. La sua impronta l’ha lasciata, eccome! L’immagine che questa regione è stata tutta in mano ai comunisti è sbagliata. La Dc ha avuto un potere probabilmente meno appariscente, ma consistente. Non è mai diventata il primo partito, ma ha pesato quanto il Pci. E poi occorrerà pure sfatare un mito: i nostri amministratori avevano eccellenti rapporti con i leader Dc. Non c’era fra loro una guerra ideologica.

Parliamo di sistema industriale. Sulla Perugina ci sarebbe da aprire un grosso capitolo. Sulla sua fine come gruppo industriale autonomo pesano molte responsabilità. Che cosa è accaduto davvero?

Le responsabilità della fine vanno individuate prima di tutto nella congiuntura economica e finanziaria degli anni Settanta. Naturalmente quelle difficoltà le hanno vissute numerose altre aziende che però le hanno brillantemente superate. Oltre ai problemi oggettivi, esistono dunque anche le responsabilità soggettive. La mia impressione è che l’errore fu quello di entrare in una logica multinazionale, soffrendo di una fragilità finanziaria e di una evidente sotto capitalizzazione. Questi handicap sono emersi in tutta la loro gravità nell’impatto con la crisi internazionale. A questo vanno aggiunti i contrasti famigliari che hanno esposto il gruppo alla politica di alcuni manager, talora spregiudicata, tal’altro non all’altezza della situazione.




I sindacati e la Regione non hanno le loro responsabilità?

I sindacati e la Regione hanno le loro responsabilità, ma queste erano mediate dai rapporti con l’amministratore delegato di turno, dai rapporti amicali di questo o quell’amministratore pubblico come Paolo Buitoni, con Bruno Buitoni o con altri della famiglia. Il sindacato sino a quanto era possibile, si muoveva in modo consociativo, quando si manifestavano le grandi difficoltà si ritraeva e cominciava a sparare sull’azienda. C’è stato poi anche un certo paternalismo della famiglia Buitoni: ormai in più di un saggio si racconta di questo rapporto di particolare attenzione che avevano verso i loro dipendenti. Ma torniamo alla domanda: tutto sommato non credo però che i sindacati abbiano responsabilità gravi nella crisi della Perugina. Penso che tre siano le questioni che hanno inciso davvero: la crisi internazionale, gli scontri interni alla famiglia (ad un certo punto Paolo non ne ebbe più la fiducia) e i problemi di natura finanziaria, di sotto capitalizzazione, che diventarono molto seri quando l’Ibp si allargò eccessivamente sui mercati mondiali, proprio in concomitanza con i rigori della crisi petrolifera. Parlo degli anni che vanno dal 1967 al 1976. Aveva ragione Cuccia – mi sembra lo abbia ricordato proprio Bruno Buitoni – quando consigliò ai Buitoni di affidarsi a qualche società finanziaria nazionale o internazionale di peso che li proteggesse, in qualche modo, per qualche anno. Questo la famiglia non lo volle fare, anche per i conflitti pesanti fra fratelli, fra cugini. C’era una parte dei Buitoni, ad esempio, che voleva vendere a tutti i costi. A fronte di tutto ciò non credo che la Regione potesse fare molto. Per concludere, quelli di sindacati e Regione sono i peccati veniali, anche perché né l’una né gli altri avevano un potere così grande ed incisivo. La crisi della Perugina si consumò per ragioni sulle quali questi due soggetti non avevano voce in capitolo più di tanto.

Abbiamo sfiorato più volte la questione dell’industria di stato, in particolare a Terni.

La Terni ha vissuto tutta intera la crisi della siderurgia. Credo che avrebbe potuto ritagliarsi un ruolo maggiore se fosse stata pilotata verso nuovi settori tecnologici diversificati. Qualche amministratore delegato la propose e probabilmente aveva ragione. Occorrerebbe studiare meglio due periodi: 1964-1965 e il 1974-1975. Credo che le Acciaierie siano state vittima delle logiche della Partecipazioni statali. Ho già detto che a Terni, per un lungo periodo ha contato più l’amministratore delegato della “Terni” che l’intero Pci, compreso il sindaco della città. L’analisi della Terni., del ruolo della siderurgia e delle Partecipazioni statali meriterebbe però un’intervista a sé.

Torniamo al Pci, perché il Pci ternano, grande partito operaio, fortissimo sul piano organizzativo, ha prodotto dirigenti comunisti inferiori per numero e qualità a quelli perugini. Se si escludono Ottaviani, Carnieri e pochi altri da contare sulla dita di una mano…

Era un partito operaio, con pochi intellettuali. La verità che comunque, almeno per un trentennio, il gruppo dirigente del Pci è stato peruginocentrico. Anche quei quadri che venivano fuori da realtà diverse si peruginizzavano. Si trasferivano nel capoluogo, vivevano lì e abbandonavano i loro luoghi di origine. A Perugia cresce e si forma l’unico, vero grande gruppo dirigente del Pci: quello dei Rossi, Galli, Rasimelli, Innamorati e dei “peruginizzati”: Conti, Gambuli, Maschiella e altri. Lo stesso Carnieri ormai è perugino, anzi gli capita talora di sopravvalutare il ruolo di Perugia. Oggi tutto questo è finito. Credo che Lorenzetti e il suo gruppo di folignati vivono un tardivo conflitto con Perugia. Continuano paradossalmente a vedere le cose con un occhio perugino centrico, ma non è più così. E’ finito un mondo.

Quando l’inizio della fine?

Come ho già detto, per quanto riguarda il Pci, l’inizio della fine di un gruppo dirigente in grado di operare una sintesi si verifica con l’avvento della Regione e gli scontri interni successivi: con gli anni Settanta, per fornire una data. Fra l’89 e il 1994 comincia però il vero e proprio declino della funzione di sinistra. Al momento della caduta del Muro, la crisi internazionale dei comunisti si lega in Umbria ad una delegittimazione della sua classe dirigente. Nel 1990 il Pci prese una batosta elettorale clamorosa tantoché rischiò di perdere il Comune di Terni. Fra le cause del declino annoverato anche un mutamento strutturale: la deindustrializzazione degli anni Ottanta con la crisi delle industrie di stato, delle grandi aziende e delle piccole. In parallelo si sviluppò un conflitto interno al partito comunista tra il 1985 il 1991/92. Poi arrivò la tangentopoli umbra, che tutti sottovalutano. Ma il Pci qui è stato ferito gravemente. Ci furono trenta arrestati nella provincia di Terni e arresti importanti anche a Perugia: il segretario della federazione, il tesoriere. Ci fu una pesante crisi finanziaria del partito. L’Umbria, insomma, se togli Milano, è la regione in cui il Pds ha subito più colpi dalle inchieste della Magistratura. Un episodio che dimostra quanto fosse forte la crisi della classe dirigente del Pci, che era quella che aveva governato negli anni Ottanta. Poco dopo si è avuta una vera e propria diaspora: in quattro anni furono cambiati tre presidenti della Regione, nel 1991, nel 1993 e nel 1995. E ci fu una turnazione intensa anche dei sindaci e di altri amministratori. Per non dire di ciò che accadde al Psi: prima di tutto le terribili vicende nazionali, ma non mancarono guai nemmeno localmente, sino ad arrivare alla sua scomparsa. La crisi della sinistra fu pesantissima. Il suo sistema subì un primo, durissimo colpo. Un sistema che regge ancora, anche se oggi è sempre più vecchio, logoro e stanco, come abbiamo visto proprio recentemente. C’è un Pd in difficoltà e tutto il resto è praticamente scomparso…



Cioè?

Oggi il sistema punta a conservare e a riprodurre se stesso nelle uniche forme che gli sono consentite, ovvero attraverso i Comuni e la Regione. Un tempo era molto diffuso e articolato. Ora, le banche non hanno più nessuna radice regionale, l’università è in profondo crisi, e anche i grandi gruppi industriali se la passano male: la Perugina e la Terni fanno parte di due multinazionali e c’è stata persino la pesante caduta d’immagine della famiglia Colaiacovo, dovuta alla volontà di accentrare cariche e potere nelle proprie mani da parte del suo leader, e ancor più legata ad una vicenda penale che nasce da un penoso conflitto intestino.

Quindi, nonostante la sua crisi, in Umbria le cose che contano sono tutte in mano al Pd…

Sì, se esistesse il Pd…

Al partito degli assessori?

In mano ad un agglomerato che viene eletto e che non si muove più con una logica politica unitaria. Diciamola così: gestisce tutto il partito che si aggrega per amministrare Regione ed enti locali. Negli ultimi dieci-quindici anni fare l’amministratore è diventata una professione anche piuttosto ben remunerata. Questo è un sistema di potere, molto diverso, molto meno ricco e articolato da quello del passato. Se esistesse un’opposizione vera e un candidato degno di questo nome espresso dal centrodestra alle prossime elezioni regionali potremmo essere messi in seria difficoltà. Ma non è così.

Già, come è il centrodestra umbro?

Il centrodestra ha perso negli anni Novanta l’occasione per sconfiggerci. L’esperienza di Ciaurro a Terni e poi quella di Assisi sono stati due fatti significativi, ma non li hanno saputi gestire. Il bipolarismo li aveva messi in condizione di poter vincere, ma non hanno una classe dirigente pronta a rappresentare l’alternativa. Non hanno stretto sufficienti rapporti con quelli che furono i dirigenti democristiani e socialisti che in Umbria hanno rappresentato una vasta area intermedia che non vuole votare a sinistra. Dove il centrodestra ha candidato ex socialisti, come a Passignano, a Deruta, ha vinto. Non solo non hanno una classe dirigente, ma mancano anche di proposte per la regione. Mi sembra che non siano in grado di avanzare una politica unitaria che riguardi l’intera realtà umbra. In questo somigliano in parte alla vecchia Dc, ma ben altro era lo spessore e la capacità dei dirigenti democristiani. Ben altri erano la conoscenza, il radicamento, il rapporto con la società regionale. I consiglieri regionali del Pdl hanno inoltre una scarsissima autonomia: si dividono fra i più fedeli alla Presidente Lorenzetti, i meno fedeli e gli antagonisti. Non si sembra un granché come strategia politica. Nei comuni dove vincono è perché noi gli regaliamo la vittoria a causa dei nostri conflitti interni.

Si tratta, dunque, di una classe dirigente inadeguata che ha una visione personalistica della politica, destinata quindi a perdere?

Se avessero un candidato degno di questo nome e qualche idea la proporre ce la potrebbero anche fare. I nostri recenti risultati infatti non sono stati per nulla buoni. E se vai a fare tutti i conti, scopri che il centrodestra qualche margine ce l’avrebbe. Ma i loro demeriti sono troppi.

Dunque, Rossi per sempre?
Per ora sì.

 

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